Good Will Hunting
Regia: Gus Van Sant
Sceneggiatura: Matt Damon, Ben Affleck
Genere: Drammatico
Durata: 130 minuti
Interpreti: Matt Demon: Will Hunting
Robin Williams: Sean McGuire
Ben Affleck: Chuckie Sullivan
Stellan Skargsgard: prof. Gerald Lambeau
Casey Affleck: Morgan O’Mally
Minnie Driver: Skylar
Voto:
Trama: Un ragazzo dei quartieri poveri di Boston dotato di un intelligenza prodigiosa viene condannato al carcere per una rissa di strada. Un docente universitario, accortosi delle sue potenzialità, riesce a ottenerne la custodia, a patto che Will si sottoponga a delle sedute con uno psicologo. Comincerà così un lungo e intenso percorso che porterà il ragazzo a conoscere meglio se stesso.
Recensione
di Jacopo Giunchi
Ora che i lettori di Sognandoleggendo mi conoscono un po’ meglio, mi concedo una piccola retrospettiva. Non temete: si tratta di un film godibilissimo, molto noto e neanche tanto vecchio (1993), che ha proiettato verso il successo le carriere Matt Damon, il regista Gus van Sant e Ben Affleck.
Will è giovane, bello e possiede un intelletto eccezionale. Eppure vive ancora nel quartiere, non ha titoli di studio e lavora come inserviente all’università; passa il suo tempo con gli amici cresciuti insieme a lui giocando a baseball e ubriacandosi nei pub. Se volesse, potrebbe fare qualsiasi cosa: ha una conoscenza sconfinata, studia per hobby materie complessissime e si aggira fra i corridoi della facoltà risolvendo enigmi matematici che nemmeno i migliori studenti riescono a sbrogliare. Eppure Will decide di condurre la sua vita come il resto dei suoi amici, rifiuta qualsiasi compromesso borghese e disprezza l’ambiente accademico. Perché si comporta così?
Questo è l’interrogativo che permea tutta la pellicola. “Good Will Hunting” infatti parla innanzitutto di psicologia, tema con cui il cinema (e tutta la narrativa, del resto) ha sempre avuto un rapporto difficile: essa è potenzialmente uno strumento formidabile di introspezione, ma rischia al contempo di ridurre la complessità umana a un prosaico paradigma esplicativo. Il film riesce nel difficile compito di evitare questa trappola proponendo una psicoanalisi capace di esplorare nell’animo, ma incapace di comprenderlo appieno. Più si scava in profondità, più l’Io risulta indecifrabile, persino per un genio onnisciente come Will. Questa ribellione alla psicologia, come ad ogni autorità dottrinaria, è sottolineata spesso anche nella sceneggiatura con confronti impari tra il genio enciclopedico di Will e i detentori nominali di un sapere vacuo, dove il ragazzo mostra loro di padroneggiare benissimo quei saperi, che ai suoi occhi non sono altro che trastulli. Tutti cercano di inquadrare il protagonista , di “curarlo”, mostrargli la retta via, giudicarlo; tutti finiscono inevitabilmente per essere inquadrati, giudicati e sconvolti in pochi minuti dalla sua mente prodigiosa. Tutti tranne Sean McGuire (Robin Williams).
Sean e Will sono due personaggi per molti aspetti simili: entrambi vengono dai quartieri poveri, entrambi estremamente intelligenti, entrambi delusi in qualche modo dalla vita. Il loro non è il classico rapporto paziente-terapeuta: Sean sa che un approccio di quel tipo sarebbe inutile con Will; invece il loro rapporto si sviluppa come tra ragazzi di quartiere: si confrontano, si sfidano, guadagnano reciproco rispetto e infine crescono insieme. La scoperta di se stessi quindi passa attraverso la scoperta dell’Altro in un continuo gioco delle parti. Per Sean, Will è solo un ragazzo spaventato che utilizza la sua granitica erudizione per evitare di parlare di se stesso. Grazie al suo genio, si pone al di sopra delle altre persone e rifiuta di essere analizzato con gli stessi criteri che lui usa per giudicare tutto e tutti. Criteri superficiali, ovviamente: in realtà egli non conosce niente e nessuno, men che meno se stesso. La vera conoscenza non è il nozionismo, ma quella che riguarda le particolarità intime delle persone, conoscibili soltanto attraverso la condivisione e la fiducia reciproca. I due si scoprono essere profondamente simili ed è appunto tramite lo specchiarsi l’uno con l’altro che giungono a una maggiore consapevolezza della condizione umana.
Le sequenze delle sedute psicoanalitiche si alternano a quelle della vita di Will aiutando lo spettatore a comprendere il suo comportamento con eleganza e discrezione, senza mai scadere nel didascalico. Van Sant non si lascia tentare dal ritrarre la solitudine solipsistica di una mente superiore, ma crea una netta separazione fra il mondo interiore e quello intellettivo; anche fotograficamente sono evidenti le differenti connotazioni dei luoghi: le luminose e perfette aule universitarie, le calde e chiassose atmosfere del pub, fino alla luce soffusa delle scene di intimità, dove si insiste quasi ossessivamente sulle imperfezioni dei corpi e degli ambienti. La sceneggiatura, che valse l’oscar a Ben Affleck e Matt Demon, fa frequente ricorso a monologhi in cui Will espone il proprio pensiero, spesso smontando le convinzioni di chi ha davanti grazie a brillanti argomentazioni. L’inverosimiglianza di questi birignao ad effetto è resa appropriata soltanto dalla genialità sovrumana attribuita al personaggio. Ve ne propongo uno dei tanti:
In questa scena il protagonista rifiuta un lavoro prestigioso ad un colloquio procuratogli dal suo tutore. Anche qui sono rintracciabili molti dei temi che caratterizzano l’opera. Non ci si faccia intimidire dalla sicurezza dell’eloquio e la ferrea retorica no-global: il discorso all’NSA è il risultato della paura del successo, della paura di fallire e della paura di affrontare qualcosa di diverso, oltre che della ribellione verso un mondo imperfetto. La chiave è la paura. Lui ha paura di essere abbandonato, di essere deluso, ha paura di cambiare e di affrontare qualcosa che cambierebbe lo status quo perché il successo gli è sconosciuto e ne ha paura. La paura in tutte le sue forme caratterizza la sua vita. Usa la sua intelligenza, il suo sapere teorico asettico per difendersi ed è anche questa la motivazione del suo discorso all’NSA: il discorso è giustissimo ma lui non lo pronuncia per idealismo. Lo fa per difendersi dalla paura del successo, in questo caso, paura di qualcosa che non conosce, che potrebbe essere un fallimento e che comunque lo spaventa a prescindere. L’intelligenza oltre al modo in cui si difende è anche il modo in cui attacca quando non può farlo con i pugni. L”essere stato abbandonato e deluso da chi doveva amarlo lo ha reso un ragazzo che non permette alle persone di avvicinarsi perché, secondo lui, potrebbero deluderlo e abbandonarlo nuovamente, nonché costringerlo a fare i conti con quello che ha sempre cercato di seppellire; quindi è incapace di aprirsi alle vere esperienze del reale, sopperendo (o illudendosi di sopperire) a ciò con la sua conoscenza nozionistica. Usare l’intelletto è facile per lui, affrontare l’esistenza e se stesso no. Il suo genio è la sua difesa.
Questo e molti altri discorsi rendono grandiosa la sceneggiatura, che è intellettuale senza essere accademica, contrariamente ad altri film di stampo simile come “L’attimo fuggente”, “Il club degli imperatori”, “A beautiful mind”. Anzi, nel film viene più volte messa in ridicolo la vanagloria del sapere istituzionale con dialoghi dalla logica semplice e inoppugnabile. Will fugge dai professori, che gli danno la caccia per paura che “il suo genio vada sprecato”, e si rifugia mimetizzandosi fra gli amici del quartiere, ai quali è morbosamente attaccato. Non vuole allontanarsi dagli amici che sono stati la sua unica famiglia, gli unici che gli abbiano mostrato lealtà. A inizio film ci viene presentato come un ragazzo di strada che divide il suo tempo tra sbronze, partite a baseball e risse. Nella vita sociale il suo genio non trapela mai: trapelano solo il suo disagio e la sua rabbia con il mondo. I suoi amici sono coscienti della sua intelligenza ma non lo idolatrano, non lo escludono e non parlano mai delle sue particolari doti. Lo trattano come uno di loro e sono pronti a tutto per aiutarlo. Questo è tutto ciò che gli serve sapere. Tradire gli amici è un’altra delle sue paure e solo dopo che questi lo avranno incoraggiato deciderà di cambiare vita.
La grandezza del soggetto risiede nel mostrare problemi psicologici comuni esacerbati dalla particolare condizione del personaggio. Will è un ragazzo chiuso che non riesce ad aprirsi con il mondo. È irrealisticamente sapiente su tutto e tragicamente ignorante su se stesso; si sente perfetto ed eticamente superiore a tutti, ma evita qualsiasi intimità e si dà la colpa per gli abusi subiti nella sua infanzia; con le sue capacità potrebbe fare qualsiasi cosa, ma non trova motivazioni per emanciparsi dallo squallore in cui è nato. “Good Will Hunting” è traducibile con “A caccia di buona volontà”, nome parlante che salta subito all’occhio e suggerisce la ricerca di una ragione esistenziale, capire “cosa fare”, quale strada intraprendere, e soprattutto, perché. Benché non siano presenti nel film figure genitoriali vere e proprie, i due professori tentano entrambi, in vari modi, di giocarne il ruolo. Proiettano sul giovane la loro visione del mondo e lo utilizzano per risolvere la loro rivalità, rischiando di perpetrare un altro “abuso” nei suoi confronti. La sua ragazza cerca di riempirlo di affetto materno, ma il loro rapporto non può evolvere finché WIll non risolve la sua paura del rifiuto. Né la conoscenza, né l’amicizia, né l’amore riusciranno a fare da sprone e sostituire la guida familiare che a Will è mancata nella sua infanzia: solo dopo aver compreso il proprio mondo interiore e aver superato il proprio passato riuscirà a trovare la buona volontà per diventare padre di se stesso.La rappresentazione e il montaggio sono quanto mai efficaci e molti membri della troupe avranno brillanti carriere negli anni successivi. Colpiscono la forza dei dialoghi e la delicatezza della fotografia; le scene sono accompagnate dalla musica come solo i film degli anni ’90 sanno fare. Profondo e ricco di contenuti, un film che non può mancare in nessuna cineteca.
- Jacopo Giunchi -
Si ringrazia Clelia Dalila De Marco per le impressioni riguardo al colloquio all’NSA.
Autore articolo: Jack DiSpade
Studente presso il DAMS di Bologna, scrive da qualche anno di Cinema e letteratura in svariati blog italiani.