Sarà il poco invidiabile record del livello di tassazione, ma nel nostro Paese l’argomento tasse è perennemente all’ordine del giorno. Va detto che, purtroppo, il più delle volte si tratta di constatare la nascita di nuove tasse o la mancata abrogazione di tasse già esistenti ed inique.
Ma il tema che ha catalizzato in questi giorni il dibattito italiano è una novità assoluta nel panorama tributario nazionale ed europeo. Stiamo parlano della tanto discussa Web Tax, conosciuta anche come Google Tax.
Questa nuova forma di tassazione è una novità assoluta perché scardina la logica tributaria vigente nel nostro Paese dagli anni 60. Secondo questa logica pre-internet, le imprese dei paesi industrializzati (area OCSE) pagano le imposte societarie solo nelle giurisdizioni dove dispongono di un insediamento permanente, ad es: società, filiale o succursale (art.7 del Modello Ocse di convenzione contro la doppia imposizione). Per capirci, se un’impresa ha uno stabilimento in Italia ed una filiale commerciale in Spagna, dovrà pagare le tasse sia in Italia che in Spagna; se invece riesce ad esportare senza appoggiarsi ad un insediamento iberico (magari avvalendosi di un rete di agenti), pagherà le tasse solo in Italia e non in Spagna.
Questa regolamentazione risulta quanto meno datata ed inadeguata con le logiche della globalizzazione e della new economy che, sfruttando le possibilità di divisione tra titolarità economica/ giuridica della proprietà intellettuale e di diffusione a distanza dei contenuti, riescono a collocare i profitti nelle giurisdizioni fiscali più convenienti.
A ciò si deve aggiungere la libertà di movimento dei beni e dei servizi garantita dai Trattati europei. Infatti, proprio nel Trattato CE all’art.43 e 49, la pregiudiziale difesa del principio di libertà di stabilimento e di prestazione di servizi consente ad un’impresa extracomunitaria di collocarsi in paesi comunitari a bassa pressione fiscale e di condurre dà li i loro commerci in Europa, senza pagare alcuna imposta sul reddito nei mercati nazionali di sbocco. Non a caso proprio oggi è arrivata una sorta di bocciatura preventiva della legge da parte di Emer Traynor, portavoce del Commissario europeo per la Fisaclità e l’unione doganale, Algirdas Semeta.
All’interno di questo vulnus tributario si è inserita Google e molte altre multinazionali digitali, come Facebook, Amazon ecc.. Attraverso la logica del “Irish Sandwich”, un complicato gioco di passaggi finanziari tra società della stessa azienda che sono gestite operativamente alle Cayman e hanno base in Irlanda, le multinazionali digitali riescono ad eludere sia il fisco dei Paesi in cui operano, il fisco irlandese e anche quello americano, in modo tale che i 100€ guadagnati in Italia arrivino intatti nelle casse delle banche nelle Cayman.
Perché proprio l’Irlanda? A dispetto della vulgata comune, la scelta della giurisdizione irlandese non dipende esclusivamente dalla bassa aliquota sugli utili societari, 12,5% a dispetto del 31,4% in Italia e 33,33% in Francia, quanto da regole favorevoli nel calcolo delle basi imponibili e da relazioni privilegiate con alcuni paradisi fiscali. Se infatti le basi operative dei colossi del web si trovassero in Italia o in Francia il reddito prodotto non avrebbe potuto essere smistato verso i noti paradisi fiscali, in forza di una più restrittiva normativa di contrasto a queste giurisdizioni.
Come si inserisce la Google Tax in questa incredibile matassa nazionale e sovranazionale?
Innanzi tutto occorre precisare un particolare, a dispetto del nome la Web Tax non è una vera e propria tassa digitale, consiste infatti nell’obbligo delle internet company straniere di “essere titolari di una partita Iva italiana”; anzi, non potendo obbligare chi è fuori dalla giurisdizione italiana, si obbligano le imprese ed i lavoratori autonomi italiani (i c.d. soggetti passivi ai fini IVA) a finalizzare gli acquisti su internet esclusivamente presso fornitori in possesso di una partita Iva italiana.
La logica sottostante a questa legislazione è che la fatturazione dei ricavi con una partita IVA italiana porterebbe automaticamente a maggiori entrate per l’erario. Ma la cosa non è così automatica e probabilmente non porterà ai risultati sperati per due ragioni:
- 1. La maggior parte delle società di internet una partita IVA italiana ce l’ha già. Stando alla normativa europea contenuta nel D.L. 35/2005 tutte le società che si occupano di vendita a distanza devono disporre di una partita IVA nello Stato di destinazione;
- Nel settore B2B la partita IVA è di norma una partita di giro, con saldo dello Stato nullo ed i beni e servizi venduti da un’impresa europea (irlandese) ad una italiana sono già assoggettati all’Iva in capo a quest’ultima attraverso il sistema della c.d. “auto-fatturazione”.
Anche per quanto riguarda le imposte sul reddito, stando al disegno di legge non è lecito aspettarci delle maggiori entrate. Come spiega Raffaele Rizzardi, componente del comitato fiscale europeo, al Sole 24 Ore: “chi ha scritto la proposta ignora che la partita Iva non significa dover versare imposta sul reddito in quanto, come stabilito dal regolamento 282/2011 dell’Unione europea, la partita Iva stessa non vale come presunzione di stabile organizzazione. In sostanza, sarebbero obbligati a versare l’Iva mica a essere tassati sui redditi”
Quindi questa Google Tax sembrerebbe un’arma spuntata, anzi addirittura una “Legge illegale”, come già sottolineato da molti osservatori stranieri e istituzioni americane. Ma quindi serve o è inutile?
L’idea che ha portato all’intervento legislativo è giusta. Le grandi multinazionali del web stanno evadendo il fisco perché gli è permesso e allo stesso tempo stanno divorando il mercato pubblicitario dei Paesi in cui operano. Infatti oltre alla questione fiscale, già oggi ma ancor di più nel prossimo futuro, continueremo ad assistere a un’emorragia nel comparto digitale nel nostro Paese. Solo due anni fa il mercato pubblicitario italiano valeva 8 miliardi di euro, quest’anno si chiude sotto i 6,5 miliardi e nei prossimi tre o quattro anni potrebbe scendere ancora del 30%. La continua crescita della pubblicità digitale sta portando alla centralizzazione dei budget operativi solo nei centri più importanti come New York e Londra, rendendo inutili e superati i centri periferici come quello in Italia. Stanno agendo come dei predatori in un mercato, quello pubblicitario, già in difficoltà, sottraendo soldi per poi portarli altrove, distruggendo posti di lavoro e contraendo i consumi; tutto ciò mentre, in un incredibile controsenso, il settore digitale continua a crescere.
In molti sostengono che l’iniziativa è valida ma che deve essere presentata in Europa e non a livello nazionale, indicando proprio nel semestre italiano alla Presidenza UE l’occasione ideale per portare avanti questa battaglia. Anche qui però non mancano ostacoli e insidie che potrebbero minare l’iter della legge.
Oltre allo scontato lavoro di lobby delle multinazionali del web a Bruxelles, che solo nel 2012 hanno speso direttamente 7 milioni di euro ed indirettamente 10 milioni, a porre un arduo ostacolo alla legge potrebbero essere, come abbiamo già visto, i Trattati e la burocrazia europea. Un progetto di legge è in effetti già esistente, la direttiva scritta nel 2006, la 112/2006. Questa legge, che consentirebbe all’articolo 59 bis di pagare le operazioni nei Paesi in cui vengono realizzate, sarà in teoria operativa solo dal 2015, a meno che non verranno fatte proroghe o non verrà chiusa in un cassetto. Inoltre, nella situazione economica in cui si trova il continente, potrebbero mettersi di traverso quei Paesi che ospitando uffici e basi operative sul loro territorio hanno un guadagno, in occupazione, a difendere gli interessi dei Big del Web. Oltre alla già citata Irlanda, a cui si lega di conseguenza la Gran Bretagna, anche la Francia potrebbe difendere i propri interessi dopo che Google e Netflix hanno spostato i loro Head Quarters a Parigi.
La questione è un rompicapo. La regolamentazione è sacrosanta e deve essere applicata ma non si trovano le modalità e le dimensioni, nazionale o sovranazionale, adatte. Questa battaglia si carica anche di valori e motivazioni che superano quelli meramente fiscali o economici. Una legislazione in questo senso potrebbe essere il primo vero passo verso l’ingresso una regolamentazione nell’attuale Far West dell’economia digitale.