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di Michele Marsonet. A differenza di quanto molti (anzi: troppi) commentatori affermano tanto in saggi specialistici quanto in articoli pubblicati dai quotidiani, i concetti di “intellettuale collettivo” e di “egemonia culturale” non nascono nella mente di Antonio Gramsci come meri strumenti per la conquista del potere. Nel leggere i frequenti pezzi sull’argomento resto spesso sorpreso dalla superficialità di giudizi che probabilmente sono dovuti a una lettura affrettata o soltanto polemica.
Secondo la vulgata corrente il pensatore sardo, nell’elaborare l’idea del del partito come intellettuale collettivo destinato a dominare la società mediante la conquista della cultura, aveva in vista fini esclusivamente politici. Voleva insomma tracciare una via che, pur inserendosi nel filone classico del marxismo, se ne discostava in modo originale sottolineando il valore essenziale del fattore culturale, non più concepito – alla stregua dei padri fondatori – quale mera sovrastruttura dipendente dalla sfera dell’economia.
Mera ambizione di dominio, insomma, per facilitare e rendere più appetibile l’avvento al potere, che notoriamente Marx considerava inevitabile, della classe incaricata di far sorgere l’uomo “nuovo” e di porre così fine alla storia e ai conflitti che la caratterizzano sin dalle origini del genere umano.
In realtà è impossibile comprendere il pensiero gramsciano se si prescinde dalla lotta costante che negli ultimi secoli ha contrapposto il principio democratico al principio della libertà. Tanti restano attoniti nel sentir parlare di questa lotta perché sono troppo abituati a considerare tali principi come affini e strettamente correlati. E invece uguaglianza e libertà risultano compatibili solo se l’una cede qualcosa all’altra, e viceversa. Poiché non è vero che gli esseri umani siano tutti uguali: la natura e la storia dimostrano che non è così. Si può renderli uguali soltanto in base a dichiarazioni di principio che sono, proprio in quanto tali, astratte. L’uguaglianza assoluta si ottiene – ammesso che la si possa realizzare per davvero – solo a scapito della libertà individuale.
E proprio questo è l’intento di Gramsci, grande nemico del liberalismo politico. Ai suoi occhi la democrazia può giungere a compimento solo se la libertà si svincola dal liberalismo, abbandonando la sua astrattezza e passando a un’epoca di democrazia “organica” che metta in crisi i limiti che lo Stato di diritto si è auto-assegnato. A quel punto il diritto nascente, che sorge dalle classi subalterne, avrà modo di procedere all’identificazione tra diritto e Stato con il fine ultimo di giungere all’estinzione dello Stato stesso. Il diritto nuovo deve dunque diventare volontà etica collettiva superando il formalismo del diritto come è stato finora inteso.
L’individuo non ha esigenze proprie che debordano dai confini del soggetto collettivo. Non esiste di conseguenza una “libertà liberale”, poiché la libertà si declina soltanto nell’ambito del gruppo, né è possibile scindere etica e politica. Sullo sfondo c’è l’idea di un’umanità unificata e autocosciente di essere il vero e unico motore della storia. Una sorta di globalizzazione ante litteram, anche se con un significato ben diverso da quello oggi in uso.
Tali sono dunque le premesse che spiegano il senso dell’intellettuale collettivo e della egemonia culturale. Dal che appare chiaro che non si può criticare Gramsci restando unicamente sul piano politico contingente, fermandosi alla mera presa del potere.
Se lo si vuole criticare in modo serio occorre risalire alla sua convinzione che esista una Storia con la “S” maiuscola, che vi sia una particolare classe destinata a farla entrare nella fase finale e definitiva (priva di conflitti), e che si diano parimenti delle “leggi storiche” che la governano in modo rigoroso. Bisogna, in altre parole, riconoscere che Gramsci è davvero un pensatore totalitario, antiliberale piuttosto che antidemocratico. Senza queste precauzioni il rischio del fraintendimento è sempre in agguato.
Featured image, Tatiana Schucht.
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