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Grand budapest hotel

Creato il 06 aprile 2014 da Ussy77 @xunpugnodifilm

hr_The_Grand_Budapest_Hotel_3Stavolta Wes sbarca in Europa e omaggia il cinema delle origini

Oramai il talento del regista statunitense Wes Anderson non è più una novità. Grand Budapest Hotel (2014) non solo lo conferma, ma lo sottolinea con forza.

Monsieur Gustave è il concierge dell’albergo Grand Budapest Hotel, situato nell’immaginario stato di Zubrowka. Però Gustave è anche l’accompagnatore di numerose signore attempate, clienti  dell’albergo, e una in particolare Madame D. lo ha particolarmente a cuore. Dopo pochi mesi Madame D. muore e lascia in eredità a Monsieur Gustave un dipinto di inestimabile valore. Ma il figlio Dimitri non è d’accordo e accusa Gustave di aver assassinato la madre. Il concierge finirà in prigione, ma la stretta complicità che lo lega al nuovo garzoncello Zero gli sarà di molto aiuto.

I livelli di narrazione si moltiplicano e il formato del quadro cinematografico fa lo stesso (4:3, Cinemascope e 16:9). Wes Anderson, facendo questa scelta, esegue una riflessione sulla modalità di fare cinema, sul cambiamento che ha subito la narrazione e consegna allo spettatore una pellicola-capolavoro, che seppur progressivamente si faccia satura e ripeta qualche concetto di fondo, non può non lasciare ammaliati. Perché prima della sceneggiatura (graziosamente grottesca) c’è la cura della messinscena, che nuovamente risulta geometrica fino allo sfinimento, simmetricamente snob e gonfia di precisione stilistica. Dolly, controcampi repentini e dettagli sono gli strumenti di cui si compone la visione di Anderson. Inoltre, come al solito, la vicenda si sviluppa in modo leggiadro, senza subire cadute di stile, esibendo un apparato tragicomico, nel quale ogni tassello è al suo posto e nel quale ogni attore (di un cast immenso) è posto davanti alla macchina da presa in modo equilibrato e messo nella condizione di non poter sgomitare con gli altri.

Grand Budapest Hotel è una lezione di cinema e di stile: in primo luogo i rimandi agli anni ‘30 dell’Impero Austro-Ungarico (sottolineato dalle tonalità violacee) sono chiaramente un recupero del cinema delle origini (la sequenza della discesa con gli scii o quella della fuga dalla prigione). Inoltre Anderson innesta nei meandri delle sequenze lo slapstick, la costruzione filmica alla Lubitsch o alla Wilder, la fotografia pittorica, i cangianti colori pastello, il kitsch anni ‘70 e l’escamotage della triplice narrazione. Tutto ciò per sottolineare quanto la vicenda (che offre interessanti spunti sulla carenza d’umanità nelle persone) appaia in secondo piano a favore di un impianto cinematografico curato nei minimi particolari e di una bellezza unica. Anderson immergere lo spettatore all’interno del suo mondo (questa volta l’immaginaria Zubrowska) e questo è il suo pregio principale. Inoltre lo sguardo di Anderson è unico, perché pur rifacendosi a modelli preesistenti, si riserva la capacità di piegarli al proprio volere in una sorta di autocompiacimento snob di altissimo livello, nel quale i dialoghi si fondono insieme alle immagini e danno vita a un’esperienza inimitabile.

Pellicola che mette in fila eccentrici concierge sciupa femmine (attempate), nazisti dalla scorza sempre più dura, giovani ereditari, mercenari silenziosi, “garzoncelli” avventurosi, pasticcere innamorate e carcerati ingegnosi, Grand Budapest Hotel fa abbondare il riso e viene dedicata all’autore Zweig. Un’opera che omaggia il cinema d’altri tempi (e le sue innumerevoli sfaccettature) e appassiona grazie a un montaggio serrato, cadenzato e alle sonorità “retrò” realizzate dal maestro Alexandre Desplat. Wes Anderson nuovamente ammalia.

Uscita al cinema: 10 aprile 2014

Voto: ****


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