(The Grand Budapest Hotel)
Regia di Wes Anderson
con Ralph Fiennes (Gustave), Tony Revolori (Zero Moustafa da giovane), Saoirse Ronan (Agatha), F. Murray Abraham (Moustafa), Jude Law (il giovane scrittore), Adrien Brody (Dmitri), Edward Norton (Henckels), Tilda Swinton (Madame D.), Jason Schwartzman (Jean), Mathieu Amalric (Serge X.), Jeff Goldblum (Kovacs), Bill Murray (Ivan), Harvey Keitel (Ludwig), Willem Dafoe (Jopling), Léa Seydoux (Clotilde), Tom Wilkinson (l’autore), Owen Wilson (Chuck), Bob Balaban (Martin).
PAESE: USA 2014
GENERE: Commedia
DURATA: 99’
Giorni nostri. Sotto il monumento dedicato ad un importante scrittore, una giovane ragazza legge un romanzo intitolato Grand Budapest Hotel, scritto negli anni ’80. Lo scrittore senza nome vi racconta di quando, negli anni ’60, conobbe Moustafa, proprietario dell’albergo Budapest che gli raccontò del più grande concierge di tutti i tempi, monsieur Gustave. Nel 1932, in seguito ad un decesso sospetto e ad un furto d’arte, Gustave fu accusato d’omicidio…
Riassumere la trama di questa opera n° 8 di Anderson, anche sceneggiatore, è impresa ardua e probabilmente inutile. Come in tutti i suoi (ottimi) film, a contare è la magistrale galleria di personaggi, l’irresistibile umorismo sospeso e minimale che vela un’amara malinconia, una messa in scena orgogliosamente retrò e uno stile registico simmetrico e controllatissimo che segue i personaggi divertendosi con loro. I film di Anderson sono rarissimi esempi di film in cui anche la regia (posizione della macchina da presa, movimenti di macchina) fa ridere. Fautore di un cinema fiabesco e surreale, Anderson spinge all’estremo il suo discorso sulla storia, intesa come “racconto in cui verità e fantasia si incrociano continuamente”: la struttura temporale a scatole cinesi (si parte dai giorni nostri, si va negli anni ’80, poi nei ’60, infine nei ’30 – anni in cui è ambientata la storia di Gustave – per poi, nel finale, “risalire” fino all’attualità) conferma l’importanza/debolezza della trasmissione delle storie: importanza perché riporta i tratti salienti, debolezza perché a forza di “tramandare” si perde la verità. Ma è una debolezza giusta, concessa, in qualche modo doverosa: il cantastorie DEVE usare la propria fantasia ma, come sottolinea all’inizio lo scrittore, essa deriva sempre da ciò che è reale, da ciò che gli viene raccontato.
Il racconto è quindi per Anderson una “mediazione” poetica tra le due parti, tra il reale e il fittizio, tra l’accaduto e il raccontato, una dimensione sottolineata in modo geniale anche dalla forma: man mano che si va indietro nel tempo, tutto (scenari, situazioni, costumi, dialoghi) diventa sempre più surreale, posticcio, fuori moda, come a dire che il racconto del racconto di un racconto non può sicuramente essere uno specchio fedele della realtà ma può comunque essere emozionante. Addirittura, le vicende del 1932 sono tutte girate in formato quadrato (il formato dei vecchi film) e approdano spessissimo ad una comicità slapstick che ricorda nelle gag Chaplin e Keaton e negli effetti speciali “meccanici” i capolavori di Méliès. Senza darsi alla citazione cinefila gratuita (come va molto di moda oggi), bensì citando direttamente uno STILE, un modo di fare cinema che non si usa più. Che è poi un modo come un altro per raccontare il paradosso del cinema di Anderson, apparentemente lontanissimo dalla realtà e invece assai ancorato nell’esistenza di tutti noi (il film è ambientato in un luogo immaginario dell’Europa, ma il partito che prende il potere durante le vicende è una satira di quello nazista). È, come tutti i suoi film, un film sull’amore, ma stavolta è più forte la presenza della morte e la consueta vena di amara malinconia diventa spesso un razionale pessimismo. Per la prima volta in un film di Anderson, tra i protagonisti c’è un cattivo vero e proprio (Dafoe). Contributi tecnici ineccepibili: fotografia (Robert Yeoman), musiche (Alexandre Desplat), costumi (Milena Canonero).