Grand Budapest Hotel, Germania e Francia, 2014, Regia di Wes Anderson
Recensione di Alberto Bordin
L’ultima fatica di Wes Anderson è un successo; inutile dirlo: Grand Budapest Hotel piace a tutti. Film che assume tutto lo stile del cinema di nicchia e che ci saremmo aspettati occupare le sole sale d’essai – e per un tempo piuttosto ridotto –, la pellicola ha invece spopolato in lungo e in largo battendo le aspettative sia spaziali che temporali di distribuzione. E la causa di tanta evidente piacenza risiede in un’altrettanta evidente ragione: il segreto sta tutto in una storia ben raccontata.
Non potrebbe essere diversamente, perché in fondo non c’è nulla di più che un racconto, affrontato certo con carattere ma di cui pare quasi impalpabile la sostanza (o più grezzamente, il contenuto); e forse non a torto, perché l’unica vera sostanza è infine proprio la dinamica del “racconto”: le storie e il loro essere raccontate. Tutto ha inizio con una giovane che legge una storia, “il Libro” scritto “dall’Autore”, il quale si introduce lui stesso raccontandoci a sua volta di quando incontrò il venerabile Zero, che gli raccontò lui pure del suo servizio sotto Monsieur Gustave. Le storie – ci spiega puntualmente l’Autore – non sono il frutto di un’immaginazione fervida, ma sono l’incontro con persone che ci attendevano per potercele raccontare.
È evidente che la storia raccontata assume un carattere catartico in questa dinamica: la storia raccontata è infine in una certa misura la Storia stessa che si racconta. Accade, come per inerzia, che il tempo degli uomini, ponga lo sguardo su se stesso e voglia così confermarsi, fermarsi, definirsi come per un istante, affidando tutto il suo essere stato a un testimone, figlio prediletto per renderlo immortale. I protagonisti di queste vicende, benché siano poi tutti attori, sono innanzitutto testimoni; testimoni di eventi eccezionali, di un passato perduto che può essere riscoperto solo nel tempo della memoria, condito con un po’ di nostalgia. Ogni personaggio, per quanto dinamico, si fa pure estremamente rigido, monolitico, quasi osservatore passivo in questa – tuttavia – frenetica follia di mondo. Sono involucri, miniati con cura in ogni dettaglio, dal taglio di capelli, al tessuto del cappotto, alla forma degli anelli e degli occhiali e delle stringhe delle scarpe, per poi essere riempiti da volti di divi celebri e familiari (una delle più belle liste di nomi e facce da gustare con gli occhi), che orientano quella struttura certo ricca ma altrimenti fuorviante. E ciascuno agisce, ma innanzitutto ciascuno parla, anche quando è zitto, dando corpo al dinamismo di un’epoca ormai impalpabile e senza tempo; sono testimoni e teste di un tribunale giuridico: sia quello prossimo per la delittuosa dipartita di una vecchia e facoltosa nobildonna, sia quello remoto del pubblico. Entrambi cercano la verità, ma ciascuno una verità diversa: i primi quella immediata di responsabili e moventi del delitto, i secondi dei responsabili e dei moventi di una cultura, uno stile di vita tanto più affascinante quanto più lontano e incomprensibile al nostro.
Stile di vita che trova la sua sostanza nello stesso Gustave (uno splendido Ralph Fiennes), ultimo erede di un’epoca già morta quando lui era ancora vivo, di un tempo in cui “in questa barbarie di mondo” tutto poteva trovare ordine e eleganza e soluzione alla “villania” con il semplice esercizio della gentilezza, riccamente guarnita di poesia e charme. E vivendo quel mondo e raccontandolo, quel mondo perduto riprendeva vita, affidato a Zero, e quindi all'Autore, e così a una giovane donna, e da quella a noi.
Perché in fondo c’è assai poca distanza tra il rifare e il ri-contare: si tratta pur sempre di un ri-accadere. E quel passato ormai lontano può così tornare a noi, in un gesto o in una parola. O magari in entrambi.