La maggior parte dei fotografi di cui abbiamo parlato finora in questa rubrica è diventata famosa per una o più immagini emblematiche, che quasi tutti ricordano di aver visto almeno una volta nella vita, magari anche senza essere in grado attribuirla al suo autore: certi ritratti di Avedon come gli scorci parigini di Doisneau, le istantanee di guerra di Capa o i grandi reportages di Fusco. Alcuni di loro, pur essendo oggi ricordati come maestri in questo settore, hanno spesso privilegiato l’aspetto immediato della fotografia, vista come arte di catturare e fissare per sempre un’immagine spesso irripetibile, ma non si sono interessati molto della parte tecnica del loro lavoro, se non l’hanno addirittura dichiaratamente ignorata, come nel caso di Cartier-Bresson.
Per contrasto, Ansel Easton Adams (San Francisco, 20 febbraio 1902 – Carmel-by-the-Sea, 22 aprile 1984) viene oggi ricordato non solo per la bellezza delle immagini che ci ha lasciato, ma anche come un importantissimo teorico dell’arte fotografica, al cui studio ha dedicato una parte considerevole della propria esistenza.
Adams nasce a San Francisco pochi anni prima del grande terremoto del 1906, durante il quale una brutta caduta gli procura una frattura al naso, destinato perciò a restargli storto per tutta la vita come si può notare osservando i suoi ritratti. Il padre è un imprenditore benestante, ma dopo alcune disavventure finanziarie viene definitivamente impoverito dalla Grande Depressione dei primi anni ’30, costringendo la famiglia a un modesto tenore di vita.
Il giovanissimo Ansel, che non ama granché lo studio, abbandona presto la scuola e cresce da autodidatta, dedicandosi soprattutto alla musica e inseguendo per alcuni anni il miraggio di una carriera pianistica, che però non si realizzerà.
Nel 1916, in occasione di una vacanza a Yosemite con la famiglia, riceve in regalo la sua prima macchina fotografica, una semplicissima Kodak Box Brownie, in compagnia della quale trascorre le sue giornate vagabondando per il parco, dove tornerà sempre più spesso negli anni successivi. Nasce così il doppio amore che lo accompagnerà per tutta la vita: per la fotografia e per l’ambiente naturale, pressoché unico soggetto dei suoi scatti, che pubblicherà con successo a partire dal 1927.
A differenza di altri suoi colleghi che hanno spaziato con disinvoltura dal ritratto ai reportages, passando magari per le fotografie di moda, l’opera di Adams è incentrata in misura quasi totale sui vasti e allora ancora del tutto incontaminati paesaggi nordamericani, fotografati rigorosamente in bianco e nero.
Utilizza sempre apparecchi di grande formato, vale a dire quelli per le pellicole 6x6 (misura espressa per convenzione in centimetri), circa il doppio del tradizionale standard 24x36 (misura espressa in questo caso, ma sempre per convenzione, in millimetri): un negativo più grande significa una resa maggiore in camera oscura, dato che non va ingrandito così tanto come quello standard per stampare le grandi immagini che abitualmente vediamo esposte alle mostre, dove il pubblico deve poterle esaminare anche da una certa distanza.
Accanto ai soggetti naturalistici e all’uso del bianco e nero, la terza componente fondamentale del lavoro di Adams è poi la camera oscura. Per lui un fotografo non deve soltanto saper scegliere un’inquadratura e fissarla sul negativo grazie alla padronanza dell’apparecchio, ma deve anche essere in grado di intervenire nel processo chimico di sviluppo della pellicola, e in seguito nella stampa, fino a riprodurre sulla carta con la massima approssimazione possibile ciò che ritiene di aver “visto” al momento dello scatto. E poiché non sempre la visione personale dell’autore coincide esattamente con quanto riportato dal negativo, ecco che entrano in gioco l’uso sapiente dei tempi di sviluppo e di stampa.
Adams ha esposto tutte le sue teorie sull’arte fotografica in tre volumi fondamentali, divenuti ben presto una sorta di Bibbia degli appassionati di fotografia naturalistica, intitolati “La fotocamera”, “Il negativo” e “La Stampa” (ed. italiana Zanichelli, 1987-89), seguiti dalla sua autobiografia (Zanichelli, 1993). In essi viene spiegato diffusamente anche quella che è entrata nella storia della fotografia come teoria del Sistema Zonale: una suddivisione della scala potenziale dei grigi nella fotografia in bianco e nero, dallo 0 corrispondente al nero assoluto fino a un grado decimo o X della carta bianca non impressionata.
Armonia e contrasto fra le singole tonalità devono esprimere la visione del fotografo, perché il risultato finale della foto in bianco e nero non risulti un grigiore indistinto.
Sfogliare le raccolte di immagini pubblicate da Adams nel corso degli anni significa compiere un lungo viaggio in quei vasti paesaggi già immortalati nei film western, dove gli uomini appaiono come figure insignificanti al cospetto della maestosità delle montagne, dei fiumi, delle immense foreste.
Le fotografie raccolte nel libro a tiratura limitata “Sierra Nevada: The John Muir Trail”, insieme alla testimonianza dell’autore, nel 1940 hanno assicurato la designazione del Sequoia and Kings Canyon come parco nazionale. Accanto a quella di fotografo, è stata infatti instancabile l’attività di Adams nelle vesti di appassionato naturalista, che gli ha procurato numerose onorificenze: tra l’altro, nel 1984 il Minarets Wilderness, nell'Inyo National Forest è stato ribattezzato Ansel Adams Wilderness in suo onore, così come dal 1986 esiste un monte Ansel Adams, una cima di 3.584 metri nella Sierra Nevada tanto spesso “raccontata” dalle sue immagini grandiose.