“Una fredda nebbia argentea aveva velato il pomeriggio e la luna non era ancora salita in cielo a disperderla, ma le stelle brillavano al di sopra della nebbia, la luna stava per apparire, e la serata non era buia. Potei rintracciare il punto dov’era una volta la casa, e dove la fabbrica di birra, e dove i cancelli, e dove le botti. Stavo contemplando un vialetto del giardino desolato, quando intravvidi una figura solitaria.
La figura diede segno di avermi visto, mentre avanzavo. Mosse verso di me, ma poi si fermò. Nell’avvicinarmi, riconobbi una figura femminile; vidi che era sul punto di voltarsi e allontanarsi, quando si arrestò, lasciando che io la raggiungessi. Vacillò, come sorpresa, pronunciò il mio nome e io gridai: – Estella!”.
Siamo alla fine di Grandi speranze, uno degli ultimi romanzi di Charles Dickens (e forse quello, tra tanti, più intriso di romance). Il protagonista, Pip – di ritorno nella città natale dopo un viaggio verso l’autoaffermazione di sé nel mondo che ha solo tradito la sua convinzione, facile (e un po’ superficiale), che tutto nella vita, a partire da un colpo di fortuna (sotto forma di una eredità che piove dal cielo, inaspettata), sia dovuto e limpido – reincontra, nella casa di Miss Havisham (che è stata il fascino e il timore della sua infanzia), il sogno del suo primo (e ultimo) sogno d’amore, Estella, tradito come gli altri – così come del resto Estella stessa è stata tradita da una vita che ha saputo essere grama. Sarà proprio su queste basi – dopo che le peripezie hanno portato i due antichi ragazzi, prima affascinati, e insieme respinti, l’uno verso l’altro, a rispettarsi con adulta saggezza – che Pip ed Estella, finalmente capaci di provare affetto, decideranno di restare amici: “Le presi la mano nella mia e lasciammo quel luogo devastato; e come le nebbie del mattino si erano diradate tanti anni fa prima, quando per la prima volta avevo lasciato la fucina, così le nebbie della sera si alzarono ora, e in tutta l’ampia distesa di placida luce che mi mostrarono, non vidi nessuna parvenza di un’altra separazione da lei”.
Si chiude così, il romanzo di Dickens. E così lo riapre e lo riprende centotrentasei anni dopo, nel 1997, La casa del sonno (Grandi speranze è del 1861). Ancora una volta una casa, nel passato e nel presente, ancora una volta protagonisti che vanno in giro per il mondo, e forse cambiano, in cerca di amore e di fortuna. E ancora una volta la trama si dipana, e avvolge, mentre Robert e Sarah (e, intorno a loro, molti e vari personaggi), corrono incontro al proprio destino, insieme con paura e desiderio. Forse il migliore tra i suoi libri (per la compattezza dell’impianto, romanzesco e terribile, tra paradosso e lieto fine), non stupisce che Coe scelga di appoggiarsi sulle spalle di Charles Dickens, riprendendo questa chiusa di serenità mesta, di un amore mai consumato e al tramonto, per trasformarlo in una corsa, volontaria e folle, verso il futuro.
E alla ‘povna – che sia Jonathan Coe, sia Dickens li ama molto (e di loro ha letto tutto, o poco ci manca) – non sa trovare modo migliore per omaggiare il re dell’Ottocento British nella settimana del bicentenario che ricorre. E in questo modo approfitta per contribuire, con questi due (per lei fondamentali) titoli, al Venerdì del libro.
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