Non appena ritorno da un festival per svariati giorni provo una pulsione irrefrenabile a volerne parlarne a chiunque mi capiti a tiro. Purtroppo sono davvero pochissime le persone che ti vogliano davvero stare a sentire, di solito la gente superato il generico interesse iniziale si stanca abbastanza presto di questi lunghi racconti corredati di minuziosi particolari. Ancora peggio va quando provo a raccontare di essere stato partecipe di esperienze paranormali, di avere assistito a coincidenze significative cariche di significati superiori. Le poche le volte che l’ho fatto mi sono reso conto che a tirare fuori la natura mistica delle cose in relazione a roba tipo Alice Cooper la gente rischia di prenderti per matto vero. Insomma, sono grato al blog perché il live report è un’ottima scusa per dare sfogo alla diarrea verbale che mi assale in ogni post-festival.
Tanto per chiarire subito: il Graspop è una figata. Dopo due anni di Hellfest per una serie di ragioni ho dovuto rinunciare alla gita a Clisson. Però, dato che non è mai veramente estate senza un bel festivalone (e senza un concerto dei Red Fang), dopo aver studiato tutte le alternative possibili, la soluzione migliore è stata fare due giorni al festival belga che, tra le altre cose, quest’anno festeggiava il ventesimo anno di attività. Per prima cosa un po’ di info utili sul festival così potrete prenderlo in considerazione per gli anni a seguire. Il Graspop Metal Meeting dura tre giorni come la maggior parte dei festival metallozzi europei. L’aeroporto più vicino è in Olanda (Eindhoven). Ci sono cinque palchi in totale e il Main Stage è doppio (come all’Hellfest). L’offerta è parecchio ricca e copre un po’ tutti i generi ma non è organizzata con palchi tematici a sottogeneri (manca una cosa tipo il Valley). Si sente bene ma sui palchi principali il volume può essere un po’ bassino se stai in mezzo, quindi bisogna scegliere bene dove piazzarsi. L’allestimento è perfetto, l’area è grande e progettata in maniera molto funzionale. I palchi satellite poi sono fantastici, molto più capienti e comodi di quelli visti in Francia o a Donington. Mai più di quaranta secondi per avere una birra e cibo merdoso di ogni razza possibile. Ci sono il mercato (magliette, toppe, dischi, qualsiasi cacata), la ruota panoramica ma anche l’autoscontro e la pesca delle paperelle coi premi (!). Una roba spettacolare insomma, nessuna delle merdate che rifilano a noi italioti.
Giorno 2
Io e l’immarcescibile Conte Max siamo arrivati direttamente il sabato. Il giorno prima suonavano i Kiss, un sacco di roba violentona tipo Cannibal Corpse, Marduk e vari recuperi dai ‘90 tipo Body Count e Life Of Agony quindi non ho dubbi sia stato bellissimo. Buona parte del sabato va via tra voli, spostamenti vari e un inquieto girovagare in cerca dell’hotel. A parte queste piccole difficoltà di assestamento è tutto ok, l’unico problema vero è che dalla mattina presto ho appiccicate in testa alcune canzoni di Antonello Venditti. Come molte delle persone che mi conoscono già sanno, provo una morbosa fascinazione per Nello e nei giorni appena prima del concerto mi sono sottoposto all’ascolto ripetuto del suo ultimo album Tortuga, lavoro intitolato come un bar davanti alla scuola che sia io che lui abbiamo frequentato (a molti anni di distanza, spero sia ovvio che non ho sessant’anni). L’apice di questo delirio lo raggiungo al cesso dell’albergo in cui mi ritrovo a canticchiare Ti amo inutilmente terribile pezzo electropop che nei sogni dell’autore presumo voglia divenire l’hit dell’estate o qualche altra follia del genere. Spotify maledetto, rendi tutto troppo facile, una volta non sarebbe stato così semplice avere accesso a certe cose. Davanti allo specchio rivolgo una sorta di preghiera affinché Rob Halford più tardi riesca a togliermi questa cosa dalla testa. Posso anticipare già da ora che il vecchio frocione pelato riuscirà nell’impresa, guadagnando ulteriori punti di stima eterna da parte mia. Si perde ulteriore tempo (e conseguentemente anche gli Exodus) alla ricerca del luogo dove si svolge il festival. Dessel è una città fantasma, sembra di stare su un set di David Lynch, alle 4 di pomeriggio di sabato non vedi per strada una persona che sia una nonostante ci sia un raduno con centomila birromani dieci metri fuori il paese. Scovato il luogo e parcheggiato il mezzo, avvicinandosi all’entrata si sentono da lontano i Godsmack e non posso far altro che chiedermi a chi possa ancora interessare una band del genere nel 2015. Espletate le formalità di rito, in fase di sopralluogo si butta un occhio patriottico ai Lacuna Coil; lei è figa ma oltre a quello non capisco cosa ci trovi la gente. Nell’indecisione si va a vedere i Five Finger Death Punch di cui ho sentito parlare qui sul blog ma di cui non ho mai ascoltato una sola nota. Non sono manco malaccio, musicalmente anche meno cafoni di quello che mi aspettassi. Pensavo fossero una band da semi anonimato e invece il pubblico apprezza e c’è veramente tantissima gente che ha le loro magliette, cappellini, eccetera, in occasioni come queste mi rendo conto di essere abbastanza fuori dal mondo.
Finito lo show, a livello di pura curiosità (detta anche fregna) avrei voluto vedere anche la arcinota Alissa ‘assumo solo proteine liquide’ White-Gluz con gli Arch Enemy ma lascio stare che preferisco prendere posti decenti per lo spettacolo di Alice Cooper. Il Sig. Furnier è annoverabile tra i primi amori demoniaci di un epoca in cui ero poco più che un pupo. Lui è un ottuagenario che regge ancora il palco con classe immensa, non si sa esattamente come abbia fatto a mantenersi così; presumo sia in parte dovuto al caratteristico make-up che quando era giovane lo rendeva decrepito e quindi oggi che è davvero cadente non fa granché differenza. I primi quattro pezzi sono altrettante coltellate al cuore, Department Of Youth che non si sa se sia più inappropriata o ironica, a seguire subito No More Mr. Nice Guy, Under My Wheels e poi Welcome To My Nightmare, questo giusto per fare capire lo standard dello spettacolo. Forse nel proseguo c’è qualche concessione di troppo al suo repertorio anni novanta: se Poison nella sua leggerezza è comunque un pezzo caruccio, Hey Stoopid è veramente una cacata. Ma insomma non ha molto senso lamentarsi perché nel complesso è un grande show, strapieno di fregnacce e scenette varie che come da copione culminano nella decapitazione del maestro nella totale euforia collettiva. I’m Eighteen mi emoziona e la canto con trasporto, pezzo totale, inno alla confusione e al non appartenere, significativa oggi come ieri. Cioè veramente la gente non sa cosa si perde. Venditti è già un po’ più lontano.
Il preserata è piuttosto affollato con sovrapposizioni varie quali Everytime I Die, Korn, Alcest e At The Gates. I Korn fanno tutto il primo disco per qualche insulso anniversario, mi sento giusto Blind in apertura che è sempre un gran pezzo e poi mi concedo una buona porzione dello show degli At the Gates che servono un bell’antipasto di schiaffoni prima che sul palco principale salgano i Judas Priest. Volendo sintetizzare al massimo, la scelta di essere a questo festival oggi è stata dettata principalmente dalla necessità di vedere questa band. Bisogna essere realisti, quando questi gruppi ultra stagionati annunciano un altro tour e tu non li hai mai visti, l’unica cosa sensata da fare è prendere un aereo e andare ovunque suonino, perché il rischio reale è che non ci possa essere un’occasione ulteriore. Questa gente è già ben oltre le più ottimistiche previsioni di longevità di carriera, è una questione di ora o mai più. “La coperta comincia ad essere corta” annuisce saggiamente il Conte Max nei minuti che precedono l’attesa. Non è tollerabile una lunga militanza metallara senza aver visto i Priest e quest’onta verrà lavata stasera. Per come la vedo io i Judas Priest sono il vero metallo nella sua espressione massima, forse ancor più dei Maiden. Quei cazzo di riff sparati a tremila, il sound urbano, sono una cosa che mi fa perdere completamente il controllo. Luci accese, parte War Pigs come intro e già mi gira la testa. A parte questo però l’inizio non è dei migliori: Halford è caracollante, non sembra stare benissimo (eufemismo) e il concerto fatica a decollare. Per quel che mi riguarda la svolta avviene su Turbo Lover, inno a cui generazioni di giovini con il chiodo hanno ispirato le proprie prestazioni sessuali. Cominciano a sparare classici e il climax viene raggiunto nella tripletta Jawbraker, Breaking The Law, Hell Bent For Leather in cui Halford arriva in sella ad una coattissima mega motocicletta. Il momento in cui la folla all’unisono si unisce in un improbabile falsetto urlando You’dont know what it’s likeee è poesia pura. Posso morire felice, o quasi. Magari riesco a vivere un’altra ventina di minuti per sentire You Got Another Thing Coming e Painkiller (qui il pelato stava per lasciarci le cuoia). Appena prima della mezzanotte parte Living After Midnight e io boh non lo so, non lo puoi spiegare, queste sono cose che devi capire da solo. Saluti e abbracci, i Judas Priest sono nel mio curriculum a Antonello Venditti è definitivamente cancellato. Catartico. Birrino e qualche pezzo degli spippinotti ma giusto perché non ci sono alternative (dalle 10 di sera in avanti al Graspop ci sono solo i due mainstage) e poi via per la lunga camminata per andare a riprender la macchina. Nonostante sia parecchio tardi nel paese in cui alloggiamo è ancora piena movida, cerco di convincere il conte ad entrare in un bar fighetto pieno di strappone locali ma a lui non regge la pompa. Abbasso la fregna, viva il metallo. Va bene così.
Giorno 3
Adesso è l’ora dei Scorpions dalla cermania, altra band che non ho mai visto e che tra le altre cose doveva anche essere il mio primo concerto (1990 o giù di lì) ma poi la data fu annullata. Chiariamo subito una cosa, non mi rompete il cazzo sugli Scorpions, non voglio sentire che non vi piacciono, che so’ froci o roba così, non sento ragioni. Gruppo di una classe immensa, Rudolf Schenker chitarrista dal gusto unico, Klaus Meine ugola inarrivabile. Fatta eccezione per le sboronate del batterista, un americanozzo che fa sfoggio del tipico buongusto della gente della sua terra, fanno un set in tutto e per tutto fantastico e suonato in maniera perfetta. Schenker sfodera una serie di Flying V custom assolutamente improbabili: quella acustica, la versione Ferrari ed addirittura un modello metallizzato con annessa marmitta fumante che viene usata durante Big City Nights. Chiusura clamorosa con Still Loving You (alè) e Rock You Like A Hurricane. Vittoria a mani basse e poco altro da dire. Una decina di minuti scarsi di silenzio e poi andrà in onda l’ultimo atto. Chiusura del festival affidata ai Faith No More e mi riesce difficile a pensare a nulla di meglio nella vita, dato che sono solo uno dei miei gruppi più preferiti di tutti i tempi. Tra l’altro, checché ne dica Charles, Sol Invictus è un album coi controcazzi. Il concerto è fantastico e si sente benissimo, il volume è bello sparato, setlist senza punti morti che va a coprire tutta la loro storia, quindi oltre a varie del nuovo ci sono svariati pezzi da Angel Dust che qui brillano particolarmente, il singolone Epic (immenso) e alcuni tra i brani da me più amati da King For A Day (album nella mia top ten personale di sempre). Mike Patton canta in maniera divina, una goduta lunga un’ora e mezza. Il pezzo che avrei voluto ascoltare più di ogni altro è Just A Man, la mettono come chiusura del bis. Momento trascendentale. Il giorno dopo sono andato a controllare su setlist.fm, in questo tour non l’hanno mai fatta tranne quella sera e in generale erano circa tre anni che non veniva suonata dal vivo. Lo reputo un regalo speciale di non so cosa e non penso proprio di averlo meritato, in ogni caso ne sono davvero grato. Si spengono le luci, la fine perfetta di un weekend eccellente. L’anno prossimo scegliere dove andare sarà ancora più difficile.