Il grattacielo non è una forma architettonica tipica del nostro paese, nonostante le residenze sviluppate in verticale siano di nostra invenzione; infatti le case torri fiorentine, ma tipiche anche di varie città comunali in epoca medievale, non sono altro che antenati del grattacielo nella forma che oggi abbiamo in mente. Ciononostante i primi grattacieli di epoca moderna in Italia risalgono al Ventennio e quindi con oltre cinquant’anni di ritardo rispetto agli Stati Uniti d’America. In particolare gli esempi maggiormente degni di nota si possono far risalire al secondo dopoguerra, periodo in cui vengono concepiti il Pirellone, la Torre Velasca e il Grattacielo di Livorno; la nostra attenzione ricade in particolare su queste ultime due architetture. Entrambi i grattacieli portano le firme di architetti di prestigio e di grande risalto all’interno della critica italiana, la Torre Velasca infatti è stata progettata dallo studio BBPR, mentre il Grattacielo di Livorno da Giovanni Michelucci. Tutti e due i progetti sono datati 1956, anche se il grattacielo toscano sorgerà circa dieci anni dopo, con una serie di modifiche successive rispetto ai disegni iniziali. E’ interessante però analizzare e confrontare tra di loro queste due opere così affini, ma allo stesso tempo distanti.
Le analogie tra i due edifici sono molteplici: entrambi cercano di superare la rigidità e i canoni compositivi dell’international style che si erano accostati totalmente alla forma architettonica del grattacielo. Michelucci lavora più sulla composizione formale e geometrica, l’architetto toscano smonta la forma archetipica del grattacielo e la decostruisce, sfruttando anche l’irregolarità del lotto, creando cinque diversi corpi giustapposti tra di loro con altezze variabili, ma mantenendo una simmetria compositiva. Il gruppo milanese, e in particolare Ernesto Nathan Rogers, invece, cerca di ragionare in termini materici, allontanandosi dalla purezza del razionalismo per avvicinarsi sempre di più al brutalismo.
Questo elemento emerge in particolar modo dal trattamento delle facciate: la Torre Velasca porta in facciata la propria struttura denunciando la sua anima in cemento armato, le travi oblique che sorreggono il “fungo” della torre sono una dichiarazione di verità strutturale forte e univoca; questo aspetto si esalta anche nei tamponamenti, anch’essi in cemento. Anche il Grattacielo di Livorno è stato realizzato in cemento armato ed anche in questo caso la struttura è posta in evidenza, sebbene poi Michelucci rivesta la maggior parte delle superfici con un paramento in mattoni, limitando la forza espressiva dell’edificio.
Dal punto di vista funzionale il ragionamento che sta alla base dei due edifici è il medesimo, vengono infatti nettamente divisi gli spazi abitativi da quelli di lavoro, anche se il risultato espressivo è poi profondamente diverso. La Torre Velasca infatti è prevalentemente dedicata ad uffici e negozi, ubicati nei primi diciotto piani; i livelli successivi sono dedicati alle abitazioni e vedono quindi aumentare la propria superficie andando così a creare l’ormai nota silhouette del grattacielo ed a omaggiare il lavoro del Filarete al Castello Sforzesco.
Risulta quindi interessante vedere come due grandi protagonisti della storia dell’architettura italiana si sono, negli stessi anni, confrontati sul tema del grattacielo andando ad analizzare aspetti simili e spesso giungendo a soluzioni condivise, nonostante la differenza che permeava i loro due mondi.