I dischi di brani vecchi risuonati e riregistrati con una produzione moderna per renderli più appetibili ai giovincelli sono grossomodo il Male Assoluto, agli stessi livelli delle birre artigianali e dei film, finanziati dalle vostre tasse, sulle coppie di intellettuali di sinistra che patiscono un vuoto esistenziale che né la villa ai Parioli né le vacanze a Capalbio riusciranno mai a riempire (almeno, se volete girare ‘sti film, sinceratevi che alla fine il protagonista venga picchiato a sangue da quattro redskin ubriachi che nel frattempo intonano Tu non sei dalla mia parte dei Colonna Infame, allora sì che pagherei il biglietto volentieri). L’esempio più turpe, in questo campo, resta l’abominevole remake di Stormblast dei Dimmu Borgir, che dieci anni fa aprì nuove, e tuttora insuperate, frontiere dell’orrido. La questione di base è la stessa dei remake Usa degli horror asiatici a beneficio di quegli americani che subirebbero uno shock culturale troppo devastante qualora scoprissero che a Tokyo il conto della pizzeria si paga in yen e non in dollari. È anche il pensiero analitico che ci distingue dai bonobi, perdiana. Ci siamo capiti, immagino. È come se gli eredi di D’Annunzio rielaborassero l’Alcyone con un vocabolario di 300 parole per venire incontro a chi non capisca cosa voglia dire “onniveggente”. Tutto questo discorso si applica, però, solo parzialmente a questa ennesima release celebrativa dei Grave Digger, che festeggiano i trentacinque anni di attività con una raccolta di pezzi (risuonati e riregistrati con una produzione moderna per renderli più appetibili ai giovincelli) tratti dai loro primi tre dischi.
Vi lascio con il meraviglioso cartone animato autoironico e poveristico (Metalocalypse in confronto sembra un film della Pixar) che costituisce il video, girato per l’occasione, di Heavy Metal Breakdown, dove i nostri vengono raffigurati come vecchietti dell’ospizio in attesa della visita della Mietitrice. Come si fa a non voler bene ai Grave Digger, suvvia. (Ciccio Russo)