Grazia Deledda: Antiche Leggende Sarde. I tre Fratelli

Creato il 20 agosto 2014 da Alessioscalas

Grazia Deledda riporta una leggenda relativa alla zona di Nurri.

Nella catena di monti che circondano Nurri, e precisamente nel monte chiamato Pala Perdixi o Corongius, c’è una grotta naturale, assai ampia e interessante, dove i contadini e i pastori si rifugiano per riposarsi, e talvolta per passarvi la notte.

Una volta tre fratelli, tre buoni abitanti del villaggio, stanchi di aver raccolto olive tutta la giornata entrarono, verso sera, per riposarsi in questa grotta. Mentre stavano ragionando tranquillamente fra loro di cose di campagna, e cenando con del pane e del magro companatico, videro entrare tre donne, che si fermarono dubbiose sull’ingresso, guardandoli con diffidenza. Ma subito essi, da buoni giovani che erano, le invitarono gentilmente ad avanzarsi ed a prender parte alla loro cena. Le donne accettarono. Finito il pasto, dopo molti inutili ragionamenti, esse chiesero ai tre lavoratori chi fossero e come si chiamavano.

«Siamo tre fratelli orfani», risposero essi con buona grazia, «e lavoriamo per vivere. Siamo tanto poveri che se sapessimo come migliorare la nostra condizione davvero che lo faremmo volentieri.»

Le tre donne che erano tre streghe (orgianas) o meglio tre fate, si consultarono con lo sguardo, prima; poi parvero combinare qualcosa fra loro, con uno strano linguaggio che sembrava piuttosto un miagolio.

Quindi la più vecchia si levò di tasca una tovaglia e la diede al maggiore dei fratelli dicendogli:

«Buon giovine, prendi questo dono che ti faccio da vera amica. Tutte le volte che vorrai mangiare, tu, i tuoi fratelli e tutta la compagnia, non avrai che da sbattere tre volte questa tovaglia, stendendola poscia dove tu vorrai. E sopra di essa ti comparirà ogni ben di Dio».

La seconda delle fate si rivolse al secondo fratello e gli offrì un portafogli dicendogli:

«E tu prendi questo. Tutte le volte che lo aprirai ci troverai denaro a tua volontà».

La più giovine intanto porgeva un piffero (sas leoneddas) al terzo, con queste parole: «Questo strumento da fiato che io ti do servirà non solo per te, ma per tutti coloro che lo suoneranno e lo udranno. Va’, caro fanciullo, io non ho altro di meglio, ma vedrai che questo umile dono ti renderà un servigio maggiore di quello che renderanno ai tuoi fratelli la tovaglia e il portafogli».

Dopo tutto questo i giovani e le tre fate si congedarono amabilmente, ringraziandosi scambievolmente e dicendosi il rituale teneis’accontu (tenetevi bene) dei sardi meridionali.

I tre giovani, possessori di quei talismani meravigliosi, non avendo più bisogno di lavorare, presero a viaggiare per le città dell’isola in cerca di avventure e di piaceri.

Da per tutto lasciavano tracce di beneficenza e di generosità – giovani di buon cuore come erano -, ma un giorno un prete potente e strapotente intimò loro di lasciar l’uso dei loro talismani, pena la scomunica e il carcere.

Qui (apro una parentesi) la leggenda non parla chiaro, ma probabilmente questo brano è un vago ricordo dell’Inquisizione impiantata in Sardegna verso la metà del secolo XV, ma esercitata anche prima d’allora da alcuni frati minoriti, e importata naturalmente dalla Spagna.

I tre fratelli risero per l’intimazione del prete. I talismani erano invisibili a tutti, tranne che ai loro possessori; quindi essi non avevano di che temere. Alle replicate minacce del prete il più giovane dei fratelli si pose a suonare il piffero, che aveva l’incanto di far ballare con la sua musica tutti coloro che la sentivano, tranne i tre fratelli. Ed ecco il prete che, contro volontà, si diede a ballare con uno slancio proprio ridicolo e irrefrenabile.

Accorse molta gente; ma a misura che si accostavano e che sentivano distintamente il magico suono, tutti ballavano senza potersi mai fermare. In breve la strada fu piena zeppa di gente che pareva impazzita, che saltava smaniando, contorcendosi, chiedendo grazia al misterioso suonatore. Costui però si divertiva molto nel veder ballare il prete, che grasso e tondo soffriva più degli altri in quella danza infernale, e non smise finché non lo vide cadere a terra sfinito e svenuto.

I tre fratelli, dopo tutto ciò, si diedero alla fuga, ma ben presto furono raggiunti, legati e gettati in fondo ad una torre.

Ma anche laggiù essi si divertivano suonando, ballando e mangiando insieme con gli altri prigionieri ed ai custodi della torre.

Perciò il loro processo fu presto sbrigato, e, condannati a morte, furono dopo pochi giorni condotti alla forca. Una fiumana immensa di gente, anche dei paesi lontani, si accalcava intorno intorno per godersi lo spettacolo dell’impiccagione dei tre fattucchieri.

Sul punto di morire i tre condannati chiesero ai magistrati presenti di accordar loro una grazia per uno. E siccome ai condannati non viene negata un’ultima grazia, tranne quella della vita, i tre fratelli ebbero ciò che chiedevano.

Il primo chiese di offrire un pranzo a tutta la moltitudine, compresi i giudici.

La proposta fu accolta con entusiasmo dalla folla, e subito il giovine stese la sua tovaglia sul palco. Ogni sorta di pietanze, di frutta, di dolci e di vini squisiti compariva sulla strana mensa.

La gente mangiava e beveva a crepapelle, ma più se ne consumava più grazia di Dio abbondava sulla tavola.

In breve tutti, sgherri, carnefici, popolo e magistrati furono ebbri e sazi a più non posso. Allora il secondo fratello chiese la grazia di distribuire del denaro. Figuriamoci se fu concessa! Aperto il portafogli incantato, il condannato distribuì enormi somme, in monete e lettere di cambio (i biglietti di banca non esistevano ancora) a quei poveri diavoli di soldati, di contadini e di pastori che mai avevano veduto una simile meraviglia.

Mentre tutti si abbandonavano ad una pazza allegria – come avremmo fatto anche noi, scrivente, lettrici e lettori, non ostante la nostra serietà e il nostro nobile disprezzo per il denaro -, il terzo fratello chiese, così tanto per formalità, la grazia di suonare. Sperando un altro benefizio, i giudici e la folla accordarono a grandi voci quest’ultima grazia. Il giovine ritto sul palco fatale, si mise a suonare e immantinente tutta la folla briaca, i giudici, le soldataglie e i carnefici si diedero ad eseguire una danza furiosa, macabra, spingendosi gli uni sugli altri, pestandosi, urtandosi, cadendo a terra chi svenuto, chi ferito e chi persino morto. E nella terribile confusione i tre condannati poterono svignarsela e porsi in salvo coi loro talismani.


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