In Italia, circa il 7% delle aziende è, di fatto, ‘green oriented’: offre cioè prodotti e servizi “ecologici”, attenti, a vario titolo, alle tematiche ambientali. Ma, di queste imprese, solo una su tre, quando realizza una campagna di comunicazione, punta sulla sostenibilità della propria offerta; il restante 67% preferisce una comunicazione tradizionale, nella quale l’aspetto ambientale è soltanto una strategia accessoria. Un autogol, verrebbe da dire, dal momento che, sempre a detta delle aziende, l’orientamento del pubblico verso i prodotti e i servizi sostenibili è una tendenza destinata a crescere. è per questo, allora, che la green economy deve investire, oltre le aziende, anche la comunicazione.
Lo rileva una ricerca condotta da Green Intelligence, che ha analizzato le proposte pubblicitarie di 426 aziende italiane nel periodo maggio-giugno 2011.
Secondo i risultati dell’indagine, per la maggior parte delle aziende la sostenibilità è soltanto una strategia accessoria della propria politica comunicativa. Ovviamente, non mancano le eccezioni virtuose: quando si parla di cosmetici, l’ecologia è centrale per il 64% degli intervistati; seguono i detersivi (60%), e l’abbigliamento (57%). Al contrario nel settore auto, che pure avrebbe molto da farsi perdonare, l’orientamento ambientale è considerato prioritario solo dal 6% degli intervistati. In generale, comunque, le imprese di soli quattro settori su sedici (energia, alimentare, edilizia e arredamento), hanno realizzato circa la metà di tutte le campagne orientate alla sostenibilità.
C’è però un aspetto fondamentale che emerge dall’analisi di Green Intelligence: per il 40% dei manager intervistati, infatti, il pubblico dedica la stessa attenzione alle prestazioni ambientali del prodotto e a quelle dei processi industriali che ne sono alla base. Lo ha dimostrato concretamente Diego Masi, presentando la rivisitazione fatta da Greenpeace di alcuni spot molto noti. “Le aziende, in realtà, fanno più greenwashing che comunicazione green”, ha evidenziato. Ovvero: la loro sostenibilità è di facciata, e serve per coprire altri comportamenti molto meno virtuosi. Ma se Masi si è dichiarato favorevole a un greenwashing, come primo passo verso una sostenibilità piena e reale, è di ben altro parere Piercarlo Pirovano, direttore Imq: “Se le aziende si dicono green ma poi offrono il fianco a critiche - ha precisato - va in crisi la credibilità dell’intero sistema. Ecco perché servono i marchi di qualità di terze parti. Il problema è che ce ne sono fin troppi”.
Se è vero però che i consumatori, volendo, sanno scegliere (per il 52% dei manager, sono solitamente premiati i prodotti e i servizi sostenibili), è altrettanto vero che, per i loro acquisti, sono disposti a pagare di più? Qui il dubbio resta aperto. In ogni caso, tre manager su cinque sono convinti che la comunicazione di prodotti o servizi ‘green’ abbia un ritorno maggiore rispetto ad altre forme di comunicazione. Tra i canali più adatti per le campagne pubblicitarie sulla sostenibilità ambientale vince il web, seguito da carta stampata e radio, mentre la tv si posiziona soltanto al quarto posto. Un’analisi condivisa dai responsabili di tre multinazionali presenti: Renault, Henkel e Weleda.
Insomma, mentre i big mondiali e le più virtuose imprese europee hanno, già da tempo, valicato la frontiera della green-web communication, le aziende italiane presidiano ancora il confine. Così come il nostro paese, travolto da una crisi culturale, prima ancora che economica, fa fatica a raggiungere il traguardo comunitario del 20-20-20: ridurre del 20% le emissioni di gas a effetto serra, portare al 20% il risparmio energetico e aumentare al 20% il consumo di fonti rinnovabili entro al 2020.
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