Pubblicità e trasparenza non fanno certo parte dello stesso campo semantico, se vogliamo utilizzare una metafora grammaticale. Ma una politica corretta della comunicazione commerciale è obbligatoria e necessaria al fine di evitare pericolosi varchi, aperti dalla disinformazione, nell’illeicità camuffata, è il caso di dire letteralmente, da coloranti, edulcoranti e altri agenti chimici di dubbia efficacia e di sicura tossicità.
I baluardi di questa filosofia del “sepolcro imbiancato” sono, direi quasi per strategia aziendale, le multinazionali, che programmaticamente attuano un meccanismo di restyling dell’immagine attraverso la promozione di prodotti ecofriendly, all natural, come va di moda definire, e che in realtà, a parte il nome evocativo e vagamente bucolico, di naturale o ecologico hanno ben poco.
Emblematico è il caso del marchio Herbal Essences, proclamato da ignote giurie di qualità (ma esisteranno davvero?) “prodotto dell’anno 2011”, e di proprietà della Procter & Gamble, una delle più potenti (e discusse) multinazionali al mondo, da più parti accusata di testare i propri prodotti cosmetici sugli animali e di praticare in modo sistematico un’opera di greenwashing (una contrazione di white washing, “fare il bucato”, e green, ”verde”) , ovvero di attribuirsi per mezzo di immagini e slogan ingannevoli un’ecosostenibiltà o un’ideologia ambientalista che in realtà nascondono gravi oltraggi all’ambiente stesso e, di conseguenza, alla salute del consumatore.
Nello specifico, la linea di shampoo e balsamo, che millanta tra i propri valori societari l’assoluta naturalità, è palesemente contraddetta dall’INCI, l’elenco degli ingredienti riportato sul retro della confezione. Nel 2010 l’associazione americana Green Patriot ha sollevato un grido di allarme per l’elevato tasso di diossano, un agente cancerogeno, nei prodotti del marchio Herbal Essences (www.green-patriot.com). Il diossano è utilizzato comunemente nei processi industriali perché è un ottimo solvente e riduce la potenza detergente del prodotto (cosicché il consumatore è costretto ad utilizzarne inconsapevolmente una quantità maggiore per avere l’effetto desiderato). Se presente in percentuale superiore allo standard diventa però altamente tossico e cangerogeno.
L’azienda in risposta ha promesso controlli più severi e mirati durante i processi di produzione.
Un’altra recente accusa, imputata al marchio da numerose organizzazioni animaliste, riguarda la certificata somministrazione quotidiana per 2 settimane consecutive di butilparabene, elemento chimico innocuo per uso esterno, ma molto pericoloso se ingerito, ad animali in gravidanza, rinchiusi per tutto il tempo del test in gabbie e costretti ad assumere la sostanza per mezzo di una sonda nell’esofago (www.hurtfulessences.org).
In questo caso la multinazionale ha giustificato la propria condotta appellandosi alla necessità di quegli esperimenti per garantire una completa sicurezza ai consumatori ( o, parafrasando, per verificare la probabile allergenicità/intolleranza agli ingredienti chimici).
Ma quanto vale la parola della P&G?
Nel 1989 investe 17 milioni di dollari in una programma di convincimento, indirizzato a legislatori, scuole e famiglie, atto a legittimare agli occhi dell’opinione pubblica l’imprescindibilità dei test su animali come garanzia di qualità del prodotto.
Nel 1990 si oppone con veemenza alla nuova legge che vieta in California il Draize test, un esperimento che prevede l’applicazione dell’agente da studiare su occhi e cute dell’animale.
Nel 1999 annuncia di aver posto definitivamente fine al ricorso alla vivesezione per la verifica dei propri cosmetici attualmente in commercio. In realtà con la strategia del New-to-the-world, ogni nuovo prodotto lanciato sul mercato presenta ingredienti alterati o modificati la cui tossicità/tollerabilità è studiata in base ad esperimenti su cavie.
Nel 2002 la BUAV (British Union for the Abolition of the Vivisection), denunciò le politiche aziendali della P&G volte a fermare la legge europea anti-vivisezione da attuare entro il 2009.
Fra le linee-guida trapelate dal memoriale d’azienda, erano previste, a tal fine, pressioni politiche sull’Unione Europea e, in caso di risposta negativa, la minaccia di commercializzare nel Vecchio Continente prodotti sperimentati fuori dall’UE, evitando così i controlli obbligatori.
(www.pandgkills.com).
Ma quanto è “verde” la P&G?
Essa, nel 1995, compariva nella lista, stilata dalla rivista Consumer Currents, delle aziende che finanziavano delle organizzazioni ambientaliste fittizie per poter ottenere sostegni economici nelle loro campagne.
Nel 1997 i pannolini Pampers, di proprietà della medesima corporation, costituivano il 2% dei rifiuti negli USA.
Parliamo di una multinazionale che utilizza uno slogan positivo come “Oggi e per le generazioni future” per promuovere la propria responsabilità aziendale nei confronti dell’ambiente, e allo stesso tempo, nel 1996 causa la contaminazione di numerosi pozzi, in seguito ad una fuoriuscita di olii minerali dallo stabilimento irlandese di Nenagh.
Una multinazionale che nel ’97 appoggia la campagna Keep American Beautiful, attuata dalle industrie di imbottigliamento per bloccare la legge che regolamentava la produzione di bottiglie in plastica.
Una multinazionale che acquista cellulosa dalla società brasiliana Aracruz-Celulose, accusata di disboscare la Foresta Amazzonica per adibire il territorio a coltivazioni di eucalipto, danneggiando gravemente le popolazioni indigene autoctone, a cui si sottraggono in tal modo i mezzi di sussistenza (www.liberamenteetica.net).
Insomma, investire miliardi nelle pubblicità greenfriendley consente di costruire, da basi inesistenti, una realtà più pulita, ed è un dettaglio non da poco per le grandi corporation, organizzate secondo una gestione del potere pressoché occulta e, per questo, libera da vincoli etici.
Ormai non occorre più lavare i panni sporchi in casa, come si diceva una volta, basta colorarli di verde e sembreranno nuovi.
Francesca Spada.