C’era un momento dell’anno nel quale mio papà valoroso comandante partigiano, indomito antifascista, mostrava un sorprendente timore reverenziale, addirittura uno sbigottimento come davanti a una divinità crudele. Erano i giorni delle ispezioni della “tributaria”: io piccola sentendo quella parola tremavo, la casa si animava, le due segretarie solerti e affezionate si trasferivano in casa e rovesciavano cartelle e borse di documenti sul grande tavolo di marmo antico della cucina, più adatto a accogliere sfilate di tortellini tondi e regolari. Perché, malgrado gli sforzi di papà eccentrico, creativo e poliedrico visionario che si cimentava in quelle che i cretini di regime definirebbero start up, quelle iniziative spericolate e innovative nei settori dell’informazione e dell’editoria non erano proprio “regolari”. E non certo per trasgressività o indole all’opacità, ma per quel disordine – anche un po’ sprezzante – quella ingenua trasgressività che faceva tenere in scarsa considerazione partite doppie, libri contabili, bolli e bolle in favore di festosa artistica negligenza.
Eh si, c’era sempre qualche fattura persa, qualche ricevuta sulla quale era caduto il tè lapsang, il suo preferito, qualche conto che non tornava, di solito a suo sfavore, e la Tina e la Luisa che con la calcolatrice, di quelle con il rotolino di carta per la stampa facevano e rifacevano disperatamente le somme, scuotendo la testa. Come la scuotevano i temibili finanziari della “tributaria” che ogni anno allargavano le braccia, comminavano l’inevitabile multa raccomandandosi e sollecitando il reprobo a “affidare tutto a un contabile”, a cercarsi un lavoro tranquillo, magari alle dipendenze di qualcuno di pratico oppure a rimettersi in politica.
Lui, mi perdonerete queste annotazioni personali, dalla “politica” era uscito proprio perché non era sufficientemente dotato per quell’esercizio che si delineava già, a qualche anno dalla Liberazione, arduo per gli integri, più favorevole alle ambizioni e all’interesse personale che a quello generale. Così sorrideva del consiglio dei severi controllori e continuava nella sua sfrenatezza più utopistica che imprenditoriale, convinto però che avessero ragione, che si doveva loro rispetto perché erano servitori di uno Stato giovane che si stava ricostruendo anche moralmente dopo le tenebre del fascismo, la sua corruzione, il suo clientelismo e il suo familismo, la sua sfacciata militanza criminale.
Non ci volle molto per perdere anche questa tra molte altre convinzioni: le paginone del Mondo e dell’Espresso con quei caratteri neri come un’ala di corvo evocativi di intrighi e sospetti cominciarono a parlare di malaffare, un teatro nel quel erano attori corrotti, corruttori, controllori. A cominciare dallo scandalo del banchiere Giuffrè, nel quale erano coinvolti esponenti della guardia di finanza. O dello scandalo petroli (300 miliardi di imposte sottratti al fisco in un giro di contrabbando di oli minerali), quando un funzionario onesto, Aldo Vitali, un colonnello della Guardia di finanza, compila “una nota interna di dieci cartelle” e 186 fogli di allegati nel quale parla di un grossissimo giro di contrabbando di petrolio, facente capo alla “Costieri Alto Adriatico” di Marghera, protetto da “un alto personaggio politico” e viene accusato di essere un militare “troppo credulone e quindi poco serio” e di aver esorbitato dalla propria competenza, anche allorché furono arrestati il comandante generale Giudice e il capo di Stato maggiore, il generale Loprete. E poi c’è stata la P2: negli elenchi di Licio Gelli della P2 vi erano finiti ben 37 alti ufficiali del Corpo, molti dei quali fecero carriera anche dopo la pubblicazione ufficiale dei nominativi degli appartenenti alla loggia, voluta dall’on. Tina Anselmi. E ancora Tangentopoli che vide implicato il generale Cerciello ed altri militari, e per gli episodi di corruzione e concussione in Veneto, i quali videro coinvolti i colonnelli Guaragna e Petrassi. Tutti ufficiali con sentenze passate in giudicato ed il tesoretto nascosto da quest’ultimo fu rinvenuto dopo anni di indagini mirate. E la P3 unitamente all’inchiesta Why Not condotta dall’allora P.m. Luigi De Magistris, quando vennero fatti i nomi di altri due alti ufficiali della Guardia di Finanza,
E il generale Roberto Speciale,quello dei viaggi in aereo con le spigole, e altri ufficiali coinvolti nell’indagine sportiva riguardante il manager della Juventus Luciano Moggi.
E poi la P4, il «sistema Milanese», quando emersero i veleni dello scontro tra differenti cordate di generali, cui il comandante Nino Di Paolo cercò di porre rimedio con una girandola di nomine, vorticosa quanto sconcertante: promossi gli indagati, come Michele Adinolfi e Vito Bardi. Spostati quelli anche solo citati nelle carte di Napoli (fronte P3), come Giovanni Mainolfi. Autoconfinati in posti di minor visibilità i più abili, come Emilio Spaziante, il più amato dalla truppa e candidato naturale di Tremonti. Tutti nomi che ritornano in quel sistema tra Mose, Expo, Napoli, in quella triade: impresa, politica, pubblica amministrazione e controllori sleali.
Con cadenza biennale, ha ricordato un rappresentante dei finanzieri democratici, il corpo ha l’onore delle cronache per casi di corruzione che vengono considerati “endemici”.
Insieme per la legalità, è lo slogan che campeggia sul sito della GdF. Sulla legalità c’è molto da discutere, ma anche sull’insieme “a chi”, in un’organizzazione abituata a ferrei controlli interni sul personale dipendente (graduati e sottufficiali) ma nessuna censura sull’operato dei vertici, ordinata su una struttura piramidale ancorata a codici e regolamenti militari in modo da sottrarla al controllo di ministri e governi che hanno per tradizione preferito stringere sodalizi spesso opachi, sempre connotati da relazioni di carattere personale, in un inquietante sistema di condizionamenti, ricatti, favori, occasionali distrazioni o pervicaci investigazioni, offerti come attività di servizio legittimata dalla erosione sempre più tossica dello stato di diritto e, insieme, dello Stato. E dei nostri diritti e delle nostre responsabilità.