Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG e condirettore di “Geopolitica”, è stato intervistato da “Radio Italia” dell’IRIB a proposito della guerra dell’informazione. La fonte originale è raggiungibile cliccando qui. Di seguito l’audio e la trascrizione.
Ultimamente si sente molto parlare di “guerra di informazione”. Ci potrebbe spiegare che cosa significa?
Prendiamola alla lontana. Le guerre sono fatte da persone: coinvolgono Stati, nazioni e popolazioni. Chi vuole una guerra ha l’esigenza di giustificarla agli occhi sia dei decisori – ossia di chi concretamente decide di farla – sia delle popolazioni – ossia di chi la combatte. Ancora oggi che, soprattutto in Occidente, si è andati verso una professionalizzazione delle forze militari e le guerre sono combattute lontano dai confini nazionali, pur non essendovi più una sofferenza diretta in termini di perdita ingente di vite umane, c’è comunque la questione legata ai costi. Le guerre costano, e sono scaricate sulla pressione fiscale. Tra l’altro, in epoca moderna si è aggiunto un altro fattore: il diffuso pacifismo. E’ aumentata la resistenza ideologica alle guerre, che rende più difficile giustificarle.
La necessità di giustificare una guerra si lega al tema della propaganda e delle rappresentazioni. Fin dai tempi più antichi il nemico si è dipinto come colui che è in torto: v’era già in nuce la propaganda moderna, con la differenza che gli autori di quest’ultima sono Stati più ampi o quanto meno meglio organizzati, più capaci di diffondere capillarmente certi messaggi, e con a disposizione le tecnologie dei media di massa. L’invenzione della radio e poi della televisione ha permesso un evidente salto di qualità alla propaganda.
Qui nasce la “guerra d’informazione”. Infatti, tramite i messaggi che vengono dati non solo si riesce a motivare la propria popolazione; non solo gruppi di pressione pubblici o privati possono spingere i decisori a deliberare per la guerra; ma si può anche legittimare la propria azione verso l’esterno, presso gli altri popoli e Stati, e minare la coesione e il morale del nemico. In quest’ottica sono importanti non tanto i mezzi di comunicazione di cui dispone uno Stato o un gruppo di pressione all’interno della nazione, quanto il controllo dei media a livello internazionale.
Questo è uno dei punti di forza degli USA. Chi controlla l’informazione negli USA ha anche una fortissima influenza all’esterno, se non tramite controllo diretto di media stranieri, avvalendosi dell’influenza che quelli interni hanno sul resto del mondo. Ciò che viene detto dalla CNN, o da agenzie di stampa anglosassoni (vedi la Reuters), ha una risonanza globale: arriva in pressoché tutti i paesi ed è generalmente preso come verità assoluta. Questo significa poter controllare il discorso: decidere quali notizie possono circolare e quali no, ed eventualmente anche manipolarle.
Questo è l’aspetto più generale della guerra d’informazione.
Qual è secondo lei il motivo della crescente dipendenza dell’Occidente dalla tecnologia dell’informazione?
Una dipendenza crescente che mira però a fare perno su quello che è un punto di forza oggettivo dell’Occidente – qui inteso principalmente come il mondo anglosassone, da cui diparte il potere mediatico cui sono soggetti anche i media europei continentali. Questo potere mediatico è un grosso vantaggio, perché permette di definire il discorso a livello mondiale. Prendiamo il caso attuale della Siria. Abbiamo in merito due narrative contrapposte. Quella diffusa globalmente dai media anglosassoni parla di una rivolta pacifica della popolazione contro un tiranno che massacra in maniera indiscriminata; la narrativa siriana denuncia invece la penetrazione di bande armate dall’esterno che compiono atti terroristici per destabilizzare istituzioni che godono dell’appoggio della maggioranza della popolazione. Evidentemente queste due narrative non sono bilanciate: senza entrare nel merito di quale sia corretta, o se la verità stia nel mezzo, è un dato di fatto che la prima (tramite agenzie di stampa e reti televisive diffuse in tutto il mondo) si è affermata globalmente come discorso dominante, mentre la narrativa siriana rimane limitata a pochissimi paesi. Nella maggior parte del mondo non esistono canali informativi che possano anche solo provare a concorrere, foss’anche da posizione di debolezza, con la narrativa dominante di matrice anglosassone.
Secondo lei quali sono le differenze tra la guerra combattuta con armi tradizionali e la guerra d’informazione?
Una tendenza consolidata nel pensiero militare è l’allargamento dell’ambito bellico, con vari aspetti inter-dipendenti tra loro. Si discute molto anche degli strumenti bellici non militari, di cui fanno parte la speculazione finanziaria o i mezzi d’informazione. La guerra è diventata veramente totale, in quanto coinvolge tutti gli strumenti possibili, non più solo quelli militari. Ciò impedisce di fare precise e nette distinzioni. La guerra dell’informazione deve giustificare il ricorso alle armi e indebolire il morale del nemico: è solo un momento di un unico sforzo bellico che include anche la guerra tradizionale. Ad esempio, nel momento in cui si conduce una guerra d’informazione contro l’Iran, è certa la presenza all’interno del paese di sabotatori, dunque di una guerra armata, benché sotterranea; v’è poi la guerra diplomatica, la guerra economica delle sanzioni, la guerra finanziaria del blocco del SWIFT. Varie guerre, ma strettamente collegate tra loro ed indivisibili.