di Iannozzi Giuseppe
Come si leggono i libri?
Oggi, possibilmente a scrocco o in biblioteca: al limite in edizione economica.Non vale proprio la pena d’investire dei danari per le ultime uscite editoriali: perlopiù tutte le novità vengono dette (reclamizzate) nella veste di capolavori. Qualche ingenuo lettore occasionale purtroppo cade nella trappola del “mercato delle patacche”, quello del capolavorismo, una malattia questa che ha attecchito nell’animo di tanti rinomati critici ma anche in quello di sedicènti esperti letterari. Non c’è libro in Italia che non esca e che da subito non venga detto “un miracolo di scrittura, un capolavoro assoluto”: una simile pubblicità ingannevole è portata avanti soprattutto dai grandi editori, che non lesinano affatto in fascette promozionali e in spavaldi proclami a lettere cubitali in quarta di copertina.
Accade sempre più spesso che recandomi in libreria abbia dei feroci conati di vomito che ricaccio nella strozza adoprando una forza di volontà ben più che nicciana: il fatto è che i libri stanno tutti dritti, accatastati in enormi babeliche pile, e ci vuol davvero poco, un movimento lieve anche solo debolmente sgarbato, perché ti cadano addosso e ti seppelliscano per sempre. Dev’essere una gran brutta morte quella di rimanere seppellito da libri di dubbio o nullo valore le cui copertine sono più patinate di quelle di Playboy, con la differenza però che Playboy è quello che promette, cioè robetta porno e piacevole in alcune situazioni d’intimità, mentre i libri son pesanti spigolosi, hardcover: ne basta uno, uno solo, ti becca una tempia, e rimani zitto muto morto per sempre. Non è bello morire così, per niente: io ho il terrore di rimaner preso da una voluminosa copia del “Dies Irae” del Giuseppe Genna e il mio terrore raddoppia quando penso alle copertine durissime dei Miti Mondadori, libri piccolini piccini ma che se te ne becchi uno in fronte, ecco, puoi raccomandare l’anima a Dio senza pensarci su due volte perché hai proprio finito di campare. I libri, quello che voglio dire, sono delle armi: e quando si dice che la penna è più forte della spada non è solo per un vuoto dire, s’intende invece che – qui vado a libera interpretazione perché ci son diverse scuole di pensiero a tal proposito – un libro dato addosso al nemico gli spezza la spada di netto. Non è un caso che i romanzi di oggi, quelli moderni, siano sempre più spessi, voluminosi: prendiamo ad esempio il “Kamikaze d’Occidente” di Tiziano Scarpa, se vai in giro con un titolo così sottobraccio come minimo la Legge dovrebbe importi d’avere il porto d’armi, perché con un titolo così non ammazzi uno o due imbranati ma ti puoi permettere di fare una strage. L’altro giorno mi trovavo appunto in libreria, camminavo in punta di piedi onde evitare che le pile di libri, sollecitate da un mio movimento un po’ brusco, si facessero prender da ratto tremore, e gira che giro mi ritrovo davanti a due torri praticamente, una alla mia destra l’altra alla mia sinistra; la prima Lev Tolstoj, “Guerra e Pace”, la seconda Tiziano Scarpa, “Kamikaze d’Occidente”. Vuoi che il Fato non mi sia avverso! Un tremolio. L’ho visto coi miei occhi il tremolio. L’ho visto, lo giuro su quel grande romanzo che parla della Russia. Tento indarno la fuga, e subito lo vedo il Kamikaze cadermi addosso, tutta la torre alla mia destra che si muove, che mi frana addosso. Un urlo muto vorrebbe dipartirsi dalla mia strozza, ma il terrore è così tanto che neanche mi riesce d’aprir la bocca per dar corpo a un prolungato silenzio. Dopo un paio d’ore la squadra di salvataggio: due commesse mi stanno trascinando fuori dalle macerie, le sento che parlottano, dicono che è un miracolo che sia ancora vivo, hanno volti che non mi son del tutto sconosciuti, mi par di ravvisare nelle loro fattezze quelle di Melissa P. e Marilù Manzini. Mi stropiccio gl’occhi, con ambo le mani, nada de nada, niente da fare: son proprio loro, mi accudiscono sorridendo, faccio per rimettermi in piedi ma non ci riesco, nelle vene mi scorre non più sangue ma acqua e terrore, così cado, sprofondo in un nero deliquio mentre le mie due soccorritrici gridano che devo, per dover di riconoscenza, comprare i loro libri che son sottili sottili, mica come il Kamikaze.
Mi sveglio: una faccia strana mi guarda in cagnesco, un volto che è un vero caos di cupidigia e di pelo. Antonio Moresco, pure lui ci mancava: mi dice di calmarmi – proprio lui che canta il Caos, da che pulpito vien la predica! -, ma io capisco “non masturbarti”. Ed allora ribatto: “Ma non mi sto toccando. E poi, Lei, qui che ci fa?” E quello: “Niente. Io qui ci lavoro.” Non me ne capacito; vedendo il mio sbigottimento, Antonio mi spiega che in quella libreria ci fa il magazziniere, che i soldi gli servono per mangiare, che di soli libri non si campa, ecc. ecc. Quasi quasi mi sta simpatico. Ma tosto cambio idea: difatti pure lui mi caccia in mano una copia in edizione di lusso dei suoi “Canti del Caos”, e per non sembrare ingrato ci mette su anche una copia del “Dies Irae” del Genna. Non so neanch’io come, ma finalmente mi riesce di cacciare un urlo, un urlo che non ha niente di umano né di divino né di animale. E’ un urlo meccanico, lovecraftiano che si spande da infinito a infinito e che nulla può contro la pila di Meridiani Mondadori Collezione, Giacomo Leopardi: la pila si sfalda e mi seppellisce per sempre.
Quando mi sveglio sono madido di sudore, il polso è veloce, il respiro corto: è stato tutto un incubo, ma la prima luce dell’alba filtra dalle commessure della persiana e l’idea di dover passare in edicola a comprare i giornali coi loro mille allegati mi fa star d’un male ma d’un male…
Son sceso dal letto, traballante, col piede sinistro: tremando sempre, ho espletato le mie pulizie, mi son vestito con una certa accortezza spiandomi con occhio bovino nello specchio, poi ho mosso il piè dabbasso. Ho quasi bestemmiato: è in momenti come questi che rimpiango d’aver smesso di fumare, adesso ci vorrebbe proprio un tiro o due. Ma no, niente. Allora attacco a canticchiare una canzone di Bob Dylan, l’effetto è lo stesso, meglio d’un pacchetto intero di M*. Tutto spavaldo entro in edicola: l’ometto dietro al bancone coperto di giornali e pettegolezzi mi fa subito l’occhiolino, scompare per un momento sotto il bancone e riappare con in mano un pacco di roba che m’allunga con un cachinno quasi fosse uno spacciatore. E io prendo: i giornali manco li guardo, ma noto che gli allegati son tanti e tutti belli corposi, un libro di poesie, Jack Kerouac – adorabile e di più -, il Meridiano Mondadori Collezione, Dante Alighieri – divino e di più -, “Torino l’Assedio 1706” con La Stampa, “La storia dell’Arte” con Repubblica, il doppio live “Circo Massimo 1983 – 2001” di Antonello Venditti con Il Corriere della Sera. Dico al giornalaio di segnare, quello segna tutto felice, e pure io tutto felice torno in strada canticchiando un vecchio successo di Bob Dylan: “Then take me disappearin’ through the smoke rings of my mind,/ Down the foggy ruins of time, far past the frozen leaves,/ The haunted, frightened trees, out to the windy beach,/ Far from the twisted reach of crazy sorrow./ Yes, to dance beneath the diamond sky with one hand waving free,/ Silhouetted by the sea, circled by the circus sands,/ With all memory and fate driven deep beneath the waves,/ Let me forget about today until tomorrow./ Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me,/ I’m not sleepy and there is no place I’m going to…”
Una volta arrivato in ufficio, la mia segretaria m’avverte che il mio psicanalista ha telefonato per spostare il nostro appuntamento di oggi. Mi gratto il cranio calvo, rasato di fresco: non capisco due cose, io non ho bisogno di andare sotto analisi, ma soprattutto non ho mai avuto una segretaria mia tutta personale e per giunta con un paio di gambe mozzafiato. Involontariamente la mano mi scivola sulla patta: arrossisco violentemente, e tiro fuori una scusa banale del tipo che stavo cercando una penna nella tasca dei pantaloni. Faccio finta di nulla anche se sento fiamme dantesche invadermi il cervello, e poi, finalmente, mi metto assiso alla mia scrivania: davanti a me c’è un tomo di proporzioni considerevoli, copertina gialla, le Yellow Pages, la mia lettura preferita, da sempre. Sfoglio il tomo, con religiosa attenzione, arrivo alla voce “librerie”, prendo la cornetta del telefono in mano e comincio il mio giro di telefonate, sperando che Dio me la mandi buona, che riesca a piazzare un numero considerevole di libri in conto deposito presso quelle librerie grandi, grandissime, che hanno un giro d’affari che non si ferma neanche nei giorni festivi né per le feste comandate.
Coi tempi che corrono, la morale è una sola: oggi anche i critici giudicano i libri dalle copertine, dalle illustrazioni, dal numero di pagine, e soprattutto dal nome che è in copertina. Ovviamente tanto più è grande e vistoso il nome dell’autore, tanta più attenzione il sedicènte critico presterà al volume che si trova sotto il naso. E non da ultimo, un sedicènte critico che si rispetti pretende che i risvolti di copertina siano scritti in maniera intelligibile, insomma che riassumano al meglio le 800 pagine che la copertina racchiude. I risvolti di copertina ricoprono un ruolo se non dominante, quasi: difatti il sedicènte critico se non trova soddisfacenti i risvolti, così, su due piedi, potrebbe inalberarsi e scrivere una recensione assai negativa. Ecco spiegato il motivo per cui, sempre più spesso, i risvolti di copertina sono molto più affascinanti e coinvolgenti del libro. Ci sono risvolti di copertina scritti così bene che da soli sono un alto esempio di letteratura nulla affatto riconducibile a un minimalismo carveriano o a una identità polaroid à la Douglas Coupland.
I pochi lettori, che ancora si consumano gli occhi sui libri, non hanno capito che le recensioni che parlano e straparlano della novità editoriale del momento è un prodotto pure essa, una forma di pubblicità, o di pubblicizzazione: per leggere un libro, sul serio, indipendentemente dal numero di pagine, occorre del tempo e dell’intelligenza, e il tempo è prezioso. Nessun critico, o che si dice tale, legge un libro in poche ore, traendo subito conclusioni critiche degne d’andare in stampa per una recensione a livello nazionale. Ecco perché gli editori, tutti oramai, s’impegnano a fornire risvolti di copertina esaustivi. E per essere sicuri che il libro verrà acquistato dal maggior numero di persone possibile non lesinano sulle modelle da schiaffare in copertina, soprattutto quando si tratta di mandare sul mercato letteratura al femminile. Ovviamente sto esagerando: non illudetevi d’entrare in una libreria e di trovare alla cassa una coniglietta, però molte copertine sono patinate. C’è pero che i risvolti, quelli sono scritti benissimo nel novantanove per cento dei casi.
Leggere un libro è un po’ come tradursi in trincea: lo dico con tono serioso, di qualità e di resistenza. In trincea, già: per me significa leggere un romanzo alla volta – non importa il numero di pagine -, ma uno alla volta, nonostante la gragnola di rumori del mondo di fuori e di quelli che uno ha nella propria testa per problemi suoi personali. Non potrei mai dividere i due emisferi cerebrali leggendo due autori per due storie diverse.
Sono in trincea ogni volta che decido d’affrontare una lettura: scelgo dal mucchio, non mi pongo troppi problemi, pesco dei libri, anche quelli di genere. E non mi preoccupo troppo di sapere in anticipo che cosa ho pescato. Non mi preoccupo di sapere qualcosa dell’autore che ho in mano: preferisco prima leggere la sua storia, poi, dopo, una volta terminato il libro, allora mi premuro di leggere anche le note biografiche. Non mi piace essere influenzato dalla biografia o dall’agiografia di uno scrittore: sono umano, troppo umano pure io, e non mi va di nutrire il sospetto (e il dubbio) che una storia è bella solo perché l’ha scritta uno che è un professore con dieci lauree alle spalle, mentre un’altra invece non lo è perché scritta da un operaio. Ho letto parecchi libri, molti di penne, per così dire, griffate, e che m’hanno fatto strabuzzare gl’occhi tant’erano brutti. E ho letto anche romanzi di gente semplice che meriterebbe assai più attenzione da parte della critica e del pubblico: se sei un umile difficilmente riesci a pubblicare per un editore grande, di quelli che ti pubblicizzano, tuttalpiù per un editore del panorama underground: e nell’underground, in questo territorio ho trovato tante voci nuove, assai più interessanti e nobili nella scrittura e nell’animo rispetto a tanti scrittori che invece sono ogni giorno sulla bocca di tutti, giornalisti e critici compresi.
Leggo quando e dove posso. Come posso e dove posso. Ma leggo sempre. Il tempo è prezioso ed è poco: sprecarlo è uno stillicidio che porta al suicidio mentale. Non sono schizzinoso: per me un posto vale l’altro, purché abbia fra le mani un libro di carta, di pagine. Non riesco a leggere gli e-book, nemmeno i pdf: il mio animo si rifiuta categoricamente di annegarsi dentro a una fiumana di parole che sono a video. Non ce la faccio proprio a leggere, ad esempio, “Guerra e pace”, in formato elettronico. Il mio cuore, la mia anima, si rifiutano di accettare l’idea che Tolstoj sia diventato un cumulo di bit. Ma a parte questa mia tara, se è giusto definirla tale; quando affronto un testo lo devo sentire come un’estensione del mio corpo della mia anima del mio cuore, indipendentemente dal fatto che il libro sia o meno piacevole. Però dev’essere qualcosa più d’un cumulo di bit. Ecco perché per leggere seriamente ho bisogno del libro in formato cartaceo. E ad esser sincero non invidio affatto quelle poche persone che riescono a leggere a video ottocento o anche mille passa pagine come nulla fosse. Ne ho conosciute un paio di persone così, scrivono anche, a livello professionale: hanno gli agganci giusti, ma la loro scrittura è sterile, senza sentimento. Perlomeno questa la mia impressione.
Saper scrivere in maniera naturale è arte.
Leggere è arte che si perfeziona lettura dopo lettura.