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Scorrendo la filmografia recente di Sono è impossibile non notare che tra il 2010 e il 2011 ha girato ben 3, e sottolineo 3, film che hanno partecipato a due delle competizioni più importanti del mondo in ambito cinematografico. Se Cold Fish (Venezia) rappresenta un’opera monstrum difficilmente replicabile e Himizu (sempre Venezia) che ancora non abbiamo visto pare assestarsi sempre su alti livelli, questo Guilty of Romance (Cannes) nonostante, è subito il caso di dirlo, stia qualche metro indietro rispetto al normale target sononiano, si presenta come un pezzo di cinema ad alto tasso di densità. Il che mi fa: 1 pensare a quanto sia bravo Sono e 2 come nel panorama attuale sia difficile trovare un regista che riesce ad abbinare in tale modo qualità e quantità.
L’iniziale scena del crimine è solo un mero pretesto per trascinarci in una classica storia Sono-style, una storia che definirei ad imbuto perché chi vi cade dentro non ha alcuna possibilità di risalita. E la malcapitata del caso è la timida Izumi, obbligata a vivere con un contrasto personale: il suo seno è prorompente, strabordante e giunonico, mentre la sua vita è di un grigiore infinito con il marito scrittore che è un metodico incallito. La chiave che le permette di aprire questa gabbia è il sesso, e già era accaduta una cosa simile con Love Exposure (2008) dove la mania di fotografare delle mutandine da donna diveniva il viatico per realizzarsi; qui siamo all’incirca negli stessi territori: Izumi facendo sesso con degli sconosciuti concretizza una catarsi che sprigiona tutta la sua repressione, così se dapprima è timida nel vendere salsicce al supermercato (un insaccato che le si addice in pieno), dopo la sua emancipazione sessuale la vediamo molto più attiva e convinta nel lavoro.
La spirale senza ritorno in cui precipita Izumi è, trattandosi di Sono, ben illustrata, ma l’autore conscio del fatto che in questo modo la carne al fuoco sarebbe stata troppo poca, immette all’interno del circolo vizioso un’altra donna, Mitsuko (un nome che è una vera ossessione per il giapponese!), la quale ha parecchi punti in comune con Izumi: da una parte ha una vita ordinaria con la sua professione di docente universitaria, ma dall’altra si sfoga facendo la prostituta nei posti più squallidi con le persone ancora più squallide che ci possano essere. La doppia identità di Mitsuko nasconde un’eziologia che Sion attribuisce ad un altro dei suoi concetti chiave: la famiglia.
La prof. ha infatti una madre (il personaggio più inquietante del film) che è a conoscenza del suo lato da Miss Hyde ed inoltre vengono suggerite male cose sul padre ora scomparso.
Pur spaziando nei temi a lui più cari, Sono in questo frangente disordina le carte in gioco e annebbia alcuni punti cruciali della dimensione narrativa (insomma, chi è l’assassino?), risulta prevedibile in almeno una situazione (il marito che in realtà è un fedifrago non era proprio impensabile), tratteggia una figura su cui ci si interroga (lo scemo col cappellino e cappotto chi è?), cita modelli alti come Kafka senza grandissimi riscontri (la manfrina del Castello) e chiosa il tutto con un finale sottotono (l’identificazione tra Izumi e Mitsuko non sorprende più di tanto).
Oltre questi inciampi, il cinema di Sono si dimostra comunque vivissimo e depositario di un’invidiabile voglia di stupire attraverso un linguaggio narrativo improntato all’eccesso che però non diventa mai gratuito. Probabilmente se questo regista abbassasse il ritmo di produzione sfornerebbe filmoni da lacrima, tuttavia credo che possa andare bene anche così. E tanto.
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