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Habtamu e tutti gli altri "nostri" figli adottivi

Creato il 02 marzo 2013 da Mariellacaruso

E' passato ormai qualche giorno dalla triste vicenda di Habtamu, il 13enne etiope suicidatosi a Biassono. Come ha raccontato Elisabetta Bossi Fedrigotti sul Corriere della Sera, Habtamu era stato adottato da una famiglia di Paderno Dugnano insieme con il fratellino più piccolo. Era già scappato un anno fa nel tentativo di tornare in Africa, scrive Bossi Fedrigotti, «dopo che più volte aveva chiesto ai suoi perché mai avessero adottato proprio lui, perché non un altro al posto suo, e anche come era l'Africa e dove era e quanto lontana fosse». Ritrovato allora alla stazione di Napoli, Habtamu si suppone fosse tornato alla sua vita fatta di scuola, scuola e parrocchia. Ma non deve essere stato proprio così. Habtamu, infatti, è scappato di nuovo. Stavolta, però, il ritrovamento è stato senza abbracci. Solo il dolore e le lacrime della sua famiglia hanno punteggiato il finale della storia.


Su questa triste vicenda vorrei spendere qualche parola. L'avevo fatto a caldo, con poche parole, nella mia bacheca di Facebook. Ci torno perché dietro al suicidio di Habtamu oltre al mal d'Africa, che c'entrerà senz'altro, sono convinta ci sia molto altro. Beninteso, io Habtamu non lo conoscevo. Così come non conosco la sua famiglia, alla quale mi sento vicina nel loro dolore. 


Qui vorrei parlare di adozione. Quella di Habtamu, così come quella di qualunque altro bambino, da qualunque parte del mondo o d'Italia arrivi. Ieri Claudio Rossi Marcelli su Internazionale rispondeva in maniera delicata a una coppia che si chiedeva come «vivrà in italia un bambino con genitori di etnia diversa dalla sua», raccontando la storia di Margot, bambina color latte, adottata da una funzionaria dell'Onu di pelle nera. Fra i commenti quello di Elizabeth diceva: «Magari il problema fosse quello, nelle adozioni! e lo dice una che è adottata...». Non so cosa intendesse, ma forse voleva dire che il problema di un adottato non è quello dell'etnia.

L'adozione è una cosa stupenda, ma tremendamente complicata. Chi pensa che i titoli di coda, del tipo "Vissero felici e contenti", di un'adozione possano essere scritti nel momento in cui il neonato, il bambino o il ragazzo fa il suo ingresso in famiglia si sbaglia. Indipendentemente dall'età in cui questi "nostri" figli entrano a far parte della famiglia, è in quel momento che s'inizia il racconto di una storia che - inevitabilmente - è diversa da quella degli altri bambini, quelli biologici. 

Questi "nostri" figli sono esseri umani che, per motivi diversi, hanno subìto un'interruzione d'amore che nessuno, e dico NESSUNO, potrà mai colmare nemmeno con tutta la buona volontà, e l'amore di questo mondo. Non importa che lo dicano platealmente o che non lo dicano mai. Per tutta la vita continueranno a porsi delle domande alle quali difficilmente troveranno risposte. 

Se «fantasticare sui genitori biologici risponde a una normale curiosità», come scrive Anna Oliverio Ferraris ne Il cammino dell'adozione, la cosa più complicata per questi "nostri" figli è fidarsi e convincersi di poter essere amati. Perché qualcuno dovrebbe farlo se chi era deputato a questo compito non l'ha fatto? E' questa la domanda (conscia o inconscia) sempre in agguato nella loro vita. Questi "nostri" figli sono diffidenti, mettono alla prova gli adulti sin da piccolissimi sfidandoli ad amarli nonostante tutto, senza peraltro convincersi mai che gli altri li amino davvero e senza riuscire, spesso, ad amarsi loro stessi fino all'autodistruzione. Definitiva come quella di Habtamu o declinata in tantissime altre forme.
Per questo Habtamu (che non ha trovato pace) e tutti questi "nostri" figli adottivi vanno amati così come sono e, per sempre, accompagnati nell'accettazione del loro dolore. Nella speranza che, un giorno o l'altro, facciano pace con se stessi, con le loro origini e imparino a fidarsi di chi sta loro accanto. Senza se e senza ma. Solo con amore. Qualunque sia la loro etnia o il colore della loro pelle.
Twitter @mariellacaruso

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