Gesù oltre un cancello. Metafora leit-motiv: qualcosa che si vede, ma che non si può toccare. Visibile e invisibile. Hadewijch (2009), opera luminosa e spossante come è nelle classiche corde dumontiane, sembra palpitare in questo terreno metafisico, tra l’aldilà e l’aldiquà.
Per cercare di inserire delle coordinate orientative si potrebbe dire che Dumont alcuni dei temi qui al centro li ha già toccati in passato. Il suo primo (bellissimo) film L’età inquieta (1997) illustrava sapientemente la crisi e la crasi di due realtà distinte a contatto fra loro con l’algerino Yasmine Belmadi outsider adolescenziale. Dunque ecco un primo elemento: il regista gioca a carte più scoperte di quanto si possa pensare: oltre la sua visuale ci parla di alterità, di ciò che è altro da noi.
Ma Hadewijch non è un manifesto per o contro l’integrazione di minoranze etniche. A Dumont non interessano i proclami, a Dumont piace carpire le cose invisibili, ed è per questo che il suo cinema fatica tremendamente ad essere accettato su vasta scala, ed è per questo che la religione rintocca prepotentemente nella sua carriera.
Figura cristologica. È il termine più calzante che si può attribuire ai protagonisti dei suo film. Per capire basta rivedere quei piedi sollevati da terra di Pharaon ne L’umanità (1999) o le visioni di Barbe nel precedente Flanders (2006). Una sorta di trascendenza mistica pervade queste figure, le quali però sono tirate per l’altro braccio dai fatti reali e fottutamenti concreti: un omicidio e la guerra, per esempio.
La nostra Céline rientra a pieno titolo nella categoria e forgia la nuova e ultimata declinazione del cinema di questo autore, almeno fino al prossimo film (Hors Satan, 2011). Anche lei appare una piccola grande martire consacrata alla devozione totale verso Dio, caritatevole e sofferente: Julie Sokolowski, un’attrice da Dumont, la quale ad ogni modo si trova a scontrarsi con la realtà, un’altra realtà, che poi è anche la nostra.
Convinzione di chi scrive è che pur lavorando di sottrazione come pochi altri autori al mondo, Dumont finisca sempre e comunque per raccontare qualcosa di importante, aspetto che comunque avevo già sottolineato nella più asettica di tutte le pellicole possibili: Twentynine Palms (2003).
Bruno Dumont è un regista concreto che tratta argomenti più concreti di quanto si possa immaginare. Qui l’incontro con un’altra confessione religiosa innesta riflessioni significative depotenziate, seguendo la logica del narrato, da un’azione repentina ed illogica come lo sono tutte quelle di matrice fanatica. Necessaria comunque per dare nerbo al finale decisamente anticonvenzionale per il cineasta. Musica off (assoluta rarità) che accompagna un abbraccio salvifico in grado di suggerire una degna massima conclusiva: gli uomini sono ancora capaci di salvarsi da soli, senza bisogno di dio, qualunque esso sia.
Forse c’è meno cinema in senso artistico rispetto al passato, ma si sa, i film di Dumont pur essendo lì sono praticamente inafferrabili. Visibili come un crocefisso, invisibili come la fede. Qualcosa che c’è, ma che non si può toccare.