Magazine Cinema
Messico, 2013
79 minuti
Halley è l'unica cometa che ogni settantacinque anni è possibile osservare a occhio nudo dalla Terra. Ma Halley, è anche il riflesso della scia luminosa che accompagna il malinconico peregrinare di Beto (Alberto Trujillo); un uomo, che come chiarisce Sebastián Hofmann nelle note di regia*, ha superato un limite conoscitivo: ha trasceso quell'ignoto confine che separa la vita dalla morte, ritrovandosi ora inspiegabilmente sospeso, come un'appendice necrotica, nell'inafferrabile spazio che divide questi due universi.
Egli è consapevole della sua condizione di (non)vita, e cioè, di non appartenere più esclusivamente al mondo terreno nel quale comunque continua a muoversi, ma di doverlo ora condividere con quell'altrove più oscuro e inesplicabile che, inesorabilmente, ci attende. Il regista (video/artista) originario di Città del Messico, costruisce la sua glaciale e immensa opera prima come una malattia che avanza silente, ma della quale non conosciamo l'origine. Possiamo solamente osservarne i segnali (cicatrici) attraverso il corpo afflitto di un uomo che la morte sembra respingere di continuo, assistendo afasici e impressionati al suo inarrestabile decadimento fisico e cercando di captarne, per quanto possibile, il suo stato di coscienza; le sensazioni (commovente la scena in cui Beto osserva una madre col suo piccolo in braccio) e il riaffiorare dei desideri più intimi che lo accompagnano in questo tormentato incedere. Beto transita, "in balia dei suoi misteri", da una sponda all'altra di un tunnel che assume le geometrie metaforiche dei corridoi della stazione della metropolitana (il tragitto, che l'uomo compie regolarmente per recarsi alla palestra dove lavora come custode notturno) che splende (e al contempo si appanna) della stessa luminescenza della cometa che ha ispirato il titolo: una dimensione nel quale l'uomo trova una sua morte, e una successiva rinascita.
Ma nonostante l'indelebile film di Hofmann si snodi agevolmente tra momenti d'estatico lirismo (come l'abbagliante splendore dei ghiacciai svelati in un epilogo ai confini del mondo) e altri, più profondamente intenti a scandagliare sull'esistenzialità di questo singolare dead man walking, l'aspetto più mistico non prevale, se non alla fine e, in maniera alquanto esile, in quei frangenti di tentato innalzamento spirituale (il risveglio all'obitorio, le immancabili dissolvenze luminose che accompagnano la sua figura). Perchè Halley, è a tutti gli effetti un film che trova il suo più potenziale compimento nella materia: attraverso quindi una corporalità pressochè totalizzante, e se escludiamo una transitoria attinenza estetica con il corpo devastato di Fassbender, in Hunger, resta uno dei pochissimi, forse l'unico visto finora, ad avvicinarsi pericolosamente a quell'indagine sui "corpi-cadavere" che macera l'idioma artistico di Antoine D'Agata. Come il fotografo francese, anche Hofmann opera sul corpo, e come un abile chirurgo incide con taglio essenziale il suo Capolavoro direttamente nella carne; nelle piaghe putrescenti che scavano il corpo di Beto, testimone impotente della decomposizione alla quale cerca in tutti i modi di sottrarsi (liquido per imbalsamazione via endovena, garze, talco profumato, meticolosa sterilità di tutto ciò che lo circonda) per non sfigurare in un mondo scolpito a perseguimento di una perfezione fisica che oramai, ai suoi occhi si offusca, perchè non le appartiene più. Ed è oltremodo l'osservazione più acuta del regista, creare questa dualità dei corpi, tra vigore e atonia; salubrità ed affezione. Non esiste dunque via di fuga, se non attraverso la ricerca di una glacialità permanente che né il freddo della sala autopsica, né tanto meno l'asetticità dell'ambiente domestico, possono restituire. Il corpo di Beto, potrà forse trovare quella quiete solamente cullandosi nell'assideralità dei ghiacciai artici; spazi sconfinati e silenziosi quantomai distanti dalla vita terrena, e più verosimilmente conformi, invece, alla perpetuità della morte.
*"Nei nostri corpi, dimorano silenziosamente per anni delle malattie, senza che ce ne accorgiamo. I corpi muoiono a poco a poco, alle nostre spalle. Noi viviamo ignorando la loro transitorietà, e quando questa si manifesta, la percepiamo come una rivolta contro noi stessi. Beto è prigioniero del suo corpo, testimone impotente della sua putrefazione. Ha superato il limite di ciò che possiamo conoscere riguardo alla nostra condizione di esseri viventi e vive in balia dei suoi misteri. Beto è un riflesso della nostra mortalità..." - Sebastián Hofmann
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