Magazine Diario personale
Diede un’occhiata fuori per accertarsi che non fosse iniziato a piovere. Il meteo aveva annunciato uragani in zona. Notò che nel parcheggio c’era un’auto mai vista. Una Volvo piuttosto malridotta e infangata. Riprese ad armeggiare frenetica sulla leva tentando di ricordare se avesse mai visto prima quella macchina. Ormai abitava lì da dieci anni e conosceva vita morte e miracoli del vicinato. Click. La leva era si era chiusa alla fine. Tirò un sospiro di sollievo. Stava per uscire, quando si accorse di non avere con sé le chiavi del nuovo appartamento. Imprecando pensò che ora era costretta a risalire. Nonostante l’affanno, preferì prendere le scale. Ogni volta che un ascensore si apriva e lei era sola, aveva una sensazione di profonda paura e disagio. Forse era rimasta impressionata da qualche film visto da bambina. Non vedeva l’ora di uscire all’aria, di andarsene da quel luogo che ormai non aveva più nulla di familiare. Mentre transitava dal primo piano, sentì un rumore metallico. L’ascensore stava salendo. Doveva essere entrato qualcuno. Fece immediatamente dietro fronte e decise di scendere. Il portoncino di vetro si chiuse di colpo dietro di lei quasi falciandole la nuca. Fuori, l’aria era torva e piena di pioggia. Si affrettò verso l’automobile e caricò tutte le sue cose alla bell’e meglio. Prima di salire in auto, alzò lo sguardo e le parve di vedere un’ombra dietro il vetro crepato dell’abbaino.Decise di attendere in auto. Si accese una sigaretta e nel frattempo provò a chiamare un amico. Dava occupato. Fu un’attesa snervante. Chi poteva essere salito? D’un tratto, sentì tamburellare sui vetri. Si girò e vide un paio di poliziotti in divisa farle cenno di uscire. Si ritrovò muta e lenta, come dentro un piano sequenza alla David Lynch. Dilatata come in una digressione apparentemente priva di senso. Sentiva che qualcosa le stava irrimediabilmente sfuggendo. “Lei abita qui?” la interrogò uno dei due agenti. “Sì, sto traslocando.” “Può gentilmente indicarci il suo appartamento?”Accartocciando il mozzicone nel posacenere dell’auto, la donna si sentì sollevata per la presenza dei poliziotti: avrebbe potuto finalmente recuperare le chiavi della nuova abitazione. Mentre salivano in ascensore, i poliziotti spiegarono di aver ricevuto una segnalazione anonima. La donna sentì il loro sguardo inquisitore. Arrossendo, si schernì e disse che non aveva idea di chi potesse aver telefonato. . . apparentemente il condominio era vuoto. Salirono fino all’ultimo piano e la donna li fece entrare. “Non posso offrirvi nulla purtroppo. Ho imballato tutto.” Si scusò desolata. “ Non si preoccupi. Possiamo dare un’occhiata in giro?” Chiese uno dei due.- “Prego, fate pure.” Rispose lei mentre controllava ogni stanza per capire dove avesse potuto lasciare le chiavi.All’improvviso, le vide luccicare sotto per terra dietro l’uscio d’ingresso. Le raccolse e quando ne sentì il peso, vide che ne mancavano un paio. La copia che aveva fatto fare per sicurezza e che non aveva ancora lascato a nessuno. Cercò di ricordare se poteva averle messe da qualche parte per sicurezza. Intanto i due poliziotti erano saliti in soffitta. Li sentiva trascinare qualcosa di pesante. . . Rigirava le chiavi in mano sempre più tesa. Non vedeva l’ora di andarsene. Dopo pochi minuti, uno dei due poliziotti ricomparve e la guardò perplesso. “Venga con me.” Le intimòLe fece strada e la portò nella parte del sottotetto più basso. Nella penombra sotto delle travi marce, intravide un fagotto arrotolato. - “Ma è assurdo. . . ” Commentò con un filo di voce.Sotto un fascio di luce viola che penetrava dal tetto spiovente, si notava a malapena un fantoccio impagliato riverso su un fianco, con uno squarcio all’altezza della tempia sinistra. - “L’aveva mai visto prima?” Le chiese un poliziotto.Non riusciva a rispondere. Aveva la lingua impastata e le gambe molli. A malapena riuscì a mormorare che no, non aveva mai visto quell’uomo. . . Ma riferì dei rumori sospetti avvertiti proprio qualche ora prima. Date le circostanze, fu costretta a seguire i poliziotti in caserma per stendere un verbale. Era molto tardi quando la rilasciarono. Era come sotto l’effetto di un narcotico. Montò in macchina e si mise in strada. Quello che lasciava era un mistero ineffabile e che voleva seppellire dietro sé. Ma nei meandri della memoria, qualcosa di sfuggente e obliquo la torturava. Qualcosa ch forse avrebbe dovuto ricordare.Dal centro alla periferia, procedeva incolonnata a passo di lumaca. Il bollettino meteo non lasciava sperare nulla di buono. Non vedeva l’ora di rintanarsi nel suo nuovo attico e dimenticare se stessa.Girando la chiave nella toppa, ebbe la sensazione che la serratura fosse troppo stretta. Rimase qualche minuto a tentare di aprire. Fuori infuriava un uragano da tregenda. Scoraggiata, si sedette un attimo sopra uno degli scatoloni che aveva scaricato. Dal lucernario, si accese un fascio di luce spettrale che sembrò durare un’eternità. Poi il buio. Stava pensando di dover chiamare un fabbro vista la situazione. Non ci voleva. All’improvviso si ricordò della chiave mancante. Proprio in quel preciso istante, la porta si aprì: “Ti aspettavo, baby.” Sussurrò una voce melliflua.Il mattino dopo la ritrovarono sgozzata nell’androne. Accanto al suo corpo sfigurato c’era un fantoccio impagliato con due bottoni neri al posto degli occhi e una coltellino infilzato nel petto.Bea Ary
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