Le due più importanti fazioni palestinesi, Fatah e Hamas, hanno annunciato mercoledì di avere raggiunto un accordo per tentare di formare un governo di unità nazionale entro il 1° giugno prossimo. L’intesa è stata raggiunta al termine di colloqui tenutesi nella notte a Gaza a casa del premier di Hamas, l’islamista Ismail Haniye, ed è stata conclusa dopo anni di importanti divisioni, iniziate nel 2007 a causa della decisione di Hamas di prendere il controllo di Gaza e formare un governo rivale a quello palestinese guidato da Fatah.
Le due fazioni hanno annunciato l’indizione di elezioni su base nazionali sei mesi dopo un voto di fiducia da parte del parlamento palestinese. Significa che l’era di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) è destinata a concludersi entro il 2014. Due i nomi più accreditati per la successione: l’attuale capo dell’ufficio politico di Hamas, quel Khaled Meshaal oggi sostenuto dai petrodollari del Qatar, e il leader di Fatah Marwan Barghouti, da anni detenuto nelle carceri israeliane.
La stampa internazionale ha salutato l’accordo con l’iperinflazionato aggettivo “storico”, dimenticando di sottolineare alcuni importanti elementi.
In primo luogo già in passato Fatah e Hamas avevano annunciato diverse riconciliazioni, che però sono sempre rimaste solo sulla carta e non hanno portato a nulla di concreto. L’intesa odierna in pratica attua gli accordi di riconciliazione raggiunti al Cairo nel 2011 e in Qatar nel 2012.
In secondo luogo, l’accordo sorvola su problematiche sostanziali, quale l’inserimento o meno delle milizie di Hamas nei ranghi della sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese. Il quotidiano israeliano Haaretz ha sottolineato che non è chiaro, infatti, se il movimento islamista smantellerà le proprie forze armate (brigate Ezzedin al Qassam) o consentirà che esse passino sotto il comando dell’Anp.
In terzo luogo, c’è il fattore Israele. Il governo israeliano ha sospeso i colloqui fissati per mercoledì con l’Autorità Nazionale Palestinese. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha detto ad Abbas che avrebbe dovuto scegliere tra la pace con Israele e la pace con Hamas - che lo Stato ebraico riconosce come gruppo terroristico. E’ un copione già visto: Israele sembra accorgersi dell’esistenza del vicino palestinese solo quando quest’ultimo si manifesta come minaccia. Secondo Umberto Giovannangeli su Limes:
L’unico pensiero di Netanyahu sembra essere mantenere in eterno l’attuale status quo, abusando della parola “negoziato” e agendo sul terreno – leggi rilancio in grande stile della politica di colonizzazione in Cisgiordania e Gerusalemme Est – per rendere di fatto improponibile la soluzione “due Stati”.
Da questo punto di vista, il patto Hamas-Fatah rappresenta un piccolo sommovimento in una situazione stagnante. E come tale va registrato. Con un’avvertenza, però.
Chiunque abbia avuto modo di visitare in questi mesi i Territori palestinesi, parlando con la gente e non solo con la nomenklatura politica, ha potuto rendersi conto di ciò che cova sotto la cenere del disincanto: un mix di rabbia e frustrazione, una marcata percezione, soprattutto tra i giovani, dell’angosciante assenza di futuro.
Una scintilla potrebbe far riesplodere la polveriera palestinese. È bene tenerne conto, per non venir spiazzati, un giorno, dagli eventi.
Gli Stati Uniti hanno annunciato che riconosceranno il futuro governo di unità nazionale palestinese solo se esso “riconoscerà Israele, rinuncerà alla violenza e aderirà agli accordi siglati in precedenza dall’OLP. Scenario utopico, viste le premesse.
C’è da chiedersi perché l’intesa Fatah – Hamas sia giunta proprio ora. Secondo Internazionale:
“È vera riconciliazione o solo strategia?”, si chiede Amira Hass sulle pagine di Ha’aretz. Secondo la giornalista israeliana l’accordo potrebbe essere un modo per Abu Mazen di fare pressione su Israele e gli Stati Uniti, “dimostrando che ha altre possibilità a sua disposizione”.
Solo una strategia? Secondo Hass, mentre a Gaza l’annuncio della riconciliazione è stato annunciato con grande enfasi, le autorità in Cisgiordania hanno riferito la notizia in maniera molto fredda. L’agenzia palestinese Wafa ha dichiarato che si tratta “di un patto che comincerà a migliorare gli accordi già siglati al Cairo nel 2011 e a Doha nel 2012″. Ma in tutti questi negoziati, ricorda Amira Hass, al momento di trovare un accordo le due parti sono tornate su posizioni ostili. “Anche questa volta la riconciliazione sembra scaturire da motivazioni contraddittorie, anche se oneste”, scrive Hass. Hamas e Fatah si rendono conto che la divisione di Cisgiordania e Striscia di Gaza favorisce Israele. “L’accordo, quindi, è un modo di rafforzare i palestinesi al loro interno, e prepararli al prossimo confronto con Israele, dal punto di vista politico, diplomatico e perfino militare, se Israele dovesse scegliere questa strada”.
Sia per Hamas sia per Fatah la riconciliazione serve a ottenere qualcosa: per Abu Mazen è un modo per fare pressione su Israele, per Hamas è un modo per riconquistare legittimità politica e per alleggerire le restrizioni agli spostamenti imposte dall’Egitto. Queste motivazioni pratiche, insieme alle divergenze storiche tra i due gruppi, potrebbero minare la riconciliazione.
L’accordo, scrive BBC, rafforza la posizione di Abbas all’interno dell’Autorità Palestinese e rende meno isolato Hamas. Abbas ha bisogno di una nuova legittimazione; Hamas cerca di rialzare la testa dopo essere stata fortemente indebolita dall’uscita di scena dei Fratelli Musulmani in Egitto. Le due parti hanno un reciproco interesse a marciare di nuovo insieme. Ma di storico, in questa intesa, non c’è proprio nulla.