Sava Trifković
Jugoslavia, 1962
11 minuti
Misconosciuto gioiellino slavo, parecchio simbolico, diretto da un ex-architetto che, stando alle carenti informazioni raccolte, pare non aver mai dimostrato, più di tanto, grande interesse per il cinema, eccetto che per altri due lavori successivi e altrettanto rari: Praistorija Vojvodine (1975) e Drug Djavo (1980) realizzato per la televisione. L'impatto all'ancestrale visione di Hands Purple of Distances è di quelli che possiamo definire da incubo, la risoluta proiezione in un universo onirico limaccioso. L'occhio (non solo il nostro) è immediatamente scalfito dall'abbacinante granulosità dei contrasti monocromatici e dai concitati movimenti circolari della camera; la ruota di un carro, ripresa più volte nella sua incessante/delirante corsa attraverso un arido paesaggio boschivo, allo stesso modo scosso e destabilizzato da quel dinamismo. Nel mentre, una donna, dapprima dall'aria vagheggiante (quasi sognatrice - la sua ombra sul prato, sovrimpressa con l'immagine di un violino), sembra successivamente entrare in stato confusionale, per fuggire poi terrorizzata al passaggio del secolare mezzo, e al nitrito dei cavalli che, imbizzarriti, lo trainano senza meta. C'è un'aura di oscura follia che aggrava progressivamente (e un orrore invisibile che penetra in modo sibillino) durante questa tellurica fuga, in direzione di un epilogo dove tutti gli elementi (la donna, la carrozza, i cavalli, il bosco stesso - l'arbusto inarcato che cede in concomitanza con l'accasciarsi della donna a ridosso degli alberi) finiscono per coniugare nella catastrofe. Sincronizzati in una rovinosa caduta che sembra imprigionarli, scolpendoli in in quell'affresco ruvido e tenebroso per l'eternità, come il profilo della donna rivolto verso il cielo a inizio pellicola, impresso in negativo, sotto i titoli di testa.
Unico difetto, la totale assenza di sonoro, a modesto avviso, fattore indispensabile in un'opera di questo carattere.
Magazine Cinema
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