Magazine Cinema
29° Torino Film Festival (25 novembre - 3 dicembre 2011)
Siamo «là dove è nato ilGiappone», ad Asuka, un villaggio nella prefettura di Nara, immerso nellecampagne. La parola hanezu indica untipo di rosso, tendente al cremisi, e fa la sua prima apparizione nel Man’yōshū, la più antica collezione dipoesie giapponesi, risalente alla seconda metà dell’VIII secolo. In uno deipoemi più noti dell’opera si immagina un triangolo sentimentale dove due monti(il Kagu e il Miminashi) competono per conquistarne un terzo (l’Unebi). Nelfilm della Kawase, che non a caso inizia con le immagini degli scaviarcheologici di Asuka, il mito si realizza nella vicenda di Kayoko, sposa diTetsuya, e amante (la parola non è la più appropriata) di Takumi. Ma ilpassaggio dal Mito alla Realtà dell’oggi non è diretto, bensì mediato dalla Storia, tramite i flashback che riprendono il dramma di Kayoko e Takumiattraverso le vicissitudini dei rispettivi nonni, anch’essi tragicamente divisida un fato che impedì loro di realizzare ciò che provavano l’uno per l’altro. Allineando i tempi del mito, della storia edel presente, la Kawase mette in scena l’eternità del sentimento d’amore el’ineluttabilità della sofferenza che esso sempre implica. L’amore sembra quiessere un sentimento senza speranza, qualcosa che può darsi solo attraversol’assenza dell’altro (o perlomeno di una sua presenza molto parziale), che vivee si nutre di quest’assenza e quasi sembra non poterne fare a meno (bellissimala scena in cui Tetsuya accoglie in casa la fradicia Kayoko, dopo che questagli ha rivelato di amare un altro, la spoglia per asciugarla, l’abbraccia e labacia: quasi che questa intimità fisica non possa che nascere dallaconsapevolezza della fine del loro amore e del suo imminente farsi assenza).Sebbene i gesti e le azioni checompongono il film appartengano ad un orizzonte certamente minimalista (sivedano a mo’ di esempio le scene in cui si preparano e consumano i pasti), Hanezu ricorre anche a vere e proprieimpennate drammatiche che arrivano a comprendere il suicidio di uno dei treprotagonisti, e conferiscono al racconto un andamento piuttosto mosso (resotale anche dal trattamento nel contempo sorprendente, ellittico ed ambiguodella maternità della donna). Come sempre nel cinema della Kawase, la naturagioca un ruolo da protagonista, che si traduce nel lirismo della suamessinscena affidata a lunghi piani contemplativi, che si intrecciano aisentimenti dei personaggi, li modulano, danno loro il tempo di esistere. Yama no oto («Il suono della montagna»)è il titolo di uno dei più noti romanzi di Kawabata Yasunari, che avrebbepotuto benissimo fungere da sottotitolo di Hanezuno tsuki («La luna cremisi»), tanto nel film a contare sono (quasi)soprattutto i rumori: quelli dei cibi che sono masticati e deglutiti, delrespiro affannoso di Kayoko che pedala sulla sua bicicletta attraversando icampi coltivati, di due insetti che lottano fra loro, della pioggia chescroscia con violenza. In generale tutto il film è pervaso da una sorta direspiro della natura che ammanta le immagini di una materialità fisica, e contribuisce a quella coniugazionedel corpo e dello spirito che è una delle ragioni d’essere del cinema di KawaseNaomi. [Dario Tomasi] .
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