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Hannah Arendt, La banalità del male, Feltrinelli . Cinquanta anni dalla pubblicazione

Creato il 20 gennaio 2014 da Atlantidelibri

 

Il 16 febbraio del 1963 la rivista The New Yorker dedicò 73 pagine ad una cronaca del processo svoltosi a Gerusalemme che aveva condannato a morte il tenente colonnello delle SS Adolf Eichmann, incaricato del trasporto verso i campi di concentrazione e di sterminio. Era il primo di cinque invii trasmessi da Hannah Arendt dedicati al processo ad Adolf Eichmann, gerarca nazista catturato nel 1960, processato a Gerusalemme nel 1961, condannato a morte il 15 dicembre 1961. L’esecuzione di Adolf Eichmann avvenne il 31 maggio del 1962 per impiccagione (pp. 257-258).

 

Il titolo originale dell’opera è “Eichmann in Jerusalem – A Report on the Banality of Evil”. Non senza ragione, l’editore italiano ritenne opportuno invertire l’ordine del titolo. Dal dibattimento in aula, infatti, la Arendt ricaverà l’idea che il male perpetrato da Eichmann – come dalla maggior parte dei tedeschi che si resero corresponsabili della Shoah – fosse dovuto non ad un’indole maligna, ben radicata nell’anima (come sostenne nel suo Le origini del totalitarismo) quanto piuttosto ad una completa inconsapevolezza di cosa significassero le proprie azioni.

 

La pubblicazione del reportage scatenò una tempesta di accuse ancorate in due punti. Da un lato, il ruolo che i capi ebrei avrebbero svolto nelle elaborazioni delle liste dei deportati. Dall’altro, l’idea che Eichmann non era un essere demoniaco, un convinto sostenitore della causa nazista, un folleintriso di ideologia, ma solo un diligente e grigio funzionario, lettore di Kant e appassionato di musica, allergico alla violenza e impegnato a compiere gli ordini; un essere banale in balia del suo tempo che  “lo predispose a convertirsi nel maggior criminale del suo tempo”.

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