Qui l'articolo sul Quotidiano
Sul tempo intercorso fra la morte del giudice siciliano e l’arresto, nel 2006, di Bernardo Provenzano sappiamo oggettivamente poco o nulla. Ed è da qui che vorremmo ripartire ad onor del vero: vorremmo sapere se una trattativa fra Stato e mafia si è celebrata nell’ultimo scorcio della Prima Repubblica; vorremmo sapere quali erano i soggetti eventualmente coinvolti in rappresentanza del “potere legale” e su quali basi essi operavano; vorremmo capire i termini dell’accordo eventualmente pattuito o, quantomeno, le originarie proposte avanzate dai mafiosi; vorremmo sapere se qualcuno ha accettato supinamente il sacrificio di Paolo Borsellino e degli “angeli” della sua scorta; vorremmo capire quali sono state le sorti della famigerata agenda rossa dopo la deflagrazione della bomba in Via D’Amelio; vorremmo comprendere perché una cortina di silenzio è stata imposta sui dettagli dell’operazione Provenzano, oggettivamente tardiva e lacunosa. Sono domande, queste, che ogni giornalista serio dovrebbe porre: per conoscere la verità e per decoro, per rispetto alla memoria nei confronti di chi ha visto la propria testa mozzata dalla scure del potere criminale, nella generale afasia di una classe politica propensa più che altro all’autotutela e non alla salvaguardia delle istituzioni.Forse qualcuno storcerà il naso di fronte a simili parole, preferendo l’assai più comoda via del rifiuto, dell’indifferenza, dell’omertà. Quel qualcuno, però, non fa un favore né al paese, trattato alla stregua di un bambino immaturo cui è negata la consapevolezza delle proprie radici, né alla categoria giornalistica, la quale – da par suo – si è già impegnata strenuamente, in alcuni casi, a favore di un’immorale campagna di damnatio memoriae.Hanno ragione, in tal senso, i garantisti a corrente alternata: sarebbe bello vivere in un paese in cui non vi fosse la cultura del sospetto. Vero. Ma sarebbe parimenti bello, anzi forse anche di più, vivere in un paese in cui uomini della maggioranza non siedono sul banco degli imputati per rapporti oscuri con la Cupola; un paese in cui un ex senatore a vita non è stato prescritto per i medesimi reati; un paese in cui un presidente di regione non soggiorna per qualche anno a Regina Coeli. Se ignoriamo questo, se ancora accettiamo la litania del complotto, non abbiamo maturato in questi ventun anni neppure l’ombra di una coscienza civica. E abbiamo ammazzato Paolo, almeno a parole, ancora un’altra volta.