Masaki Kobayashi
Giappone, 1962
Il rōnin Tsugumo Hanshirō si presenta presso il Clan Iyi per chiedere di poter compiere il suicidio rituale nella loro residenza. Dopo che il signore che serviva è caduto in disgrazia, il samurai non ha mezzi di sussistenza né ragione per continuare a vivere, e desidera porre fine alla sua esistenza nella maniera prescritta dal bushidō per preservare il proprio onore.
Masaki Kobayashi colpisce duro fin da subito con scene crudissime che, a più di sessant’anni di distanza, sanno ancora disturbare lo spettatore. Una violenza in bianco e nero senza eccessi o abbellimenti, in grado quasi di trasmettere la sensazione fisica del dolore, tanto reale da farci desiderare una misericordiosa spada a calare sul collo per porre fine allo strazio.
La storia di Hanshirō si dipana poco a poco, come un puzzle i cui pezzi si incastrino uno dopo l’altro svelando solo alla fine il quadro completo, in un film formalmente impeccabile dalla regia misurata, senza vezzi, mai svincolata dalla storia che racconta. Sceneggiatura e fotografia contribuiscono a trasmettere tensione e sfumature emotive dei personaggi, sottolineate da lunghe inquadrature dei volti.
Attenendosi irreprensibilmente al bushidō, il protagonista rivela la falsità di chi continua a percorrere quella via in modo puramente formale all’interno di una società in cambiamento. L’adesione a un codice di onore prestabilito e immutabile è una costante nella cultura giapponese, e proprio questa acritica accettazione, prioritaria rispetto al sentire umano, è il bersaglio di Kobayashi. L’etica dei samurai, tanto spesso celebrata, è il terreno in cui affonda le radici il militarismo di inizio Novecento, da cui conseguirono le mire espansionistiche dell’Impero giapponese e la rovinosa partecipazione alla Seconda Guerra Mondiale.
Rifacendosi così al passato remoto, Kobayashi fa luce su quello recente e ammonisce riguardo al futuro con uno dei chanbara più belli di sempre.
Voto: 8 1/2