HOUSE AT THE END OF THE STREET (Usa 2012)
Mamma e figlia, entrambe bionde e piuttosto belline, vanno ad abitare in un delizioso villino nei boschi comprato a modico prezzo, il cui unico, piccolo difetto consiste nel trovarsi a tre metri di distanza da un’altra casa in cui, qualche anno prima, una ragazza leggermente schizzata ha fatto fuori entrambi i genitori. Quale angosciante mistero si celerà tra quelle quattro mura, ancora abitate dal fratello della povera pazza?
Un film di rara bruttezza, uno di quegli horror improbabili, risaputi e prevedibili che lasciano il tempo che trovano. Gli autori della sceneggiatura, David Loucka e Jonathan Mostow, dovevano essere ubriachi (quando? Sempre), e il regista, tal Mark Tonderai, è talmente incapace che parlarne male sarebbe come sparare sulla croce rossa. Sono talmente tanti i luoghi comuni del genere, e usati in maniera talmente goffa, che in certi passaggi l’impressione è di assistere a un’involontaria parodia horror: c’è la classica casa maledetta, il liceale belloccio e stronzo, l’amore adolescenziale tormentato, la coppietta che fa incautamente l’amore in una macchina tra i boschi, l’esplosione di violenza nel finale, un numero imbarazzante di inquadrature il cui unico scopo è far vedere meglio le tette della protagonista ecc.
Un piccolissimo – ma proprio minimo – rammarico per due motivi: la presenza, sprecata, dell’adorabile Jennifer Lawrence (ora che ha vinto l’Oscar si spera che non sia più costretta ad accettare simili ruoli) e il pessimo utilizzo di un paio di svolte narrative discretamente inattese. Ma per il resto ogni cosa è bruttissima, anche le musiche, il cast (c’è pure Elisabeth Shue), la fotografia da videoclip e tutto ciò che può venirvi in mente. Hates (a proposito: perché questo inutile acronimo?) è decisamente tra i dieci film più “artisticamente” disastrosi che abbia mai visto al cinema.
Alberto Gallo