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Have you ever seen the rain?

Da Miwako
Fino ad un certo punto della mia vita ho pensato che la voracità fosse un comportamento compulsivo, per lo più tipico di un non ben definito periodo adolescenziale.La fretta di crescere, tipica dei 15 anni, l'impazienza di sperimentare, provare, bruciare le tappe come si fa con le prime sigarette, in maniera maldestra. L'urgenza tipica dell'adolescenza, insomma, di quei vent'anni che ci mettono un secolo ad arrivare, un fremito a raddoppiare. E invece, mi accorgo che forse è proprio di quest'epoca il non saper più aspettare. Aspettare il proprio turno, senza cercare scorciatoie, aspettare che arrivi il fresco della sera, senza rinchiudersi in casa col condizionatore puntato a 18 gradi; aspettare che lieviti il pane senza usare il lievito istantaneo; aspettare una canzone alla radio senza scaricarla da e-mule, col dito su "REGISTR.", pronti a far girare il nastro che verrà poi riascoltato fino alla nausea, imprecando ogni volta contro il conduttore radiofonico per aver sporcato la canzone preferita con parole di benvenuto. Aspettare e basta. Lasciarsi il tempo per essere presenti a noi stessi nel momento che stiamo vivendo, senza proiettarci costantemente in un futuro che, in ogni caso, ariverà comunque. E' come partecipare al più sontuoso dei banchetti, aspettando impazienti la famigerata torta a tre piani, ingurgitando ciò che ci si para davanti senza nemmeno assaporarlo. E' un'epoca take away, si mangia e si cammina per ottimizzare i tempi, si telefona e si guida, si sbaglia strada e non ci si spiega come l'interlocutore sia arrivato a parlare di Gheddafi quando l'avevamo lasciato a "quel cretino del mio vicino di casa"; si parla con i figli e si guarda "Sentieri"; si manda un'e-mail dal blackberry mentre si aspetta in coda alla coop affollata delle 8, e così, di corsa, sempre e comunque. Il fiato sul collo di tutte le cose che devono ancora venire, che ci aspettano alla soglia di ogni ora, con l'ansia del tempo che fugge a fare da carburante e la poligamia digitale che lascia un sapore agro-dolce per quello che siamo riusciti a far entrare in una giornata, per quello che avremmo potuto ma non abbiamo saputo. Per fortuna, a volte, la vita si oppone, impone i suoi tempi, ti mette in un quadrilatero di specchi senza uscita, dove sei costretto a fermarti e guardare ogni cosa. Certo, ti sbucci un ginocchio e il cicatrene dimezza di colpo i tempi di guarigione, ti viene la febbre e il caro vecchio paracetamolo diventa il tuo miglior alleato; ma se ti sanguina il cuore, non esiste nessuna pomata magica, se la tua anima s'incupisce, non c'è aggeggio digitale in grado di farti scappare dal nero che reclama attenzione da dentro. Ed è giusto che sia così. Universalmente giusto. E' la parte migliore di noi, la nostra essenza, a prescindere da ogni cosa. In qualche modo, mi fa stare bene sapere che la pioggia ha ancora la capacità di cadere quando vuole, che le lacrime possono ancora rivendicare il loro incontestabile diritto a scendere, che ci sono milioni di cose su cui, fortunatamente, non possiamo sindacare, nonostante gli sforzi sovrumani per avere il controllo di ogni frangente della nostra vita. Adesso esco. Devo comprare un paio di scarpe. Non tanto per vanità, quanto perchè i miei piedi me le stanno chiedendo disperatamente. Speriamo piova, speriamo piova fino a che l'aria non sarà di nuovo tersa.

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