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Dubito che un film così fatto e costruito possa piacere a tutti perché, diciamolo pure, Shinya gioca sporco con lo spettatore. Non viene detto come l’uomo sia finito in quell’inferno, non viene detto il perché e non viene detto chi sia quella donna, per non parlare dell’ufficio in cui riemergono. Insomma, è un tiro scorretto da parte del regista che non permette nemmeno profonde deduzioni dalla storia… d’amore? È la fine di una storia, forse? “Mi dispiace” ripetuto lievemente dalla ragazza, due ferite simili nello stesso punto… chissà. D’altronde con Vital (2004) si cercava di ricostruire la memoria di un sentimento attraverso la sofferenza del corpo, e qui accade un po’ la stessa cosa con tutte le interpretazioni soggettive del caso.
Comunque, aldilà di ciò che Haze potrebbe essere o non essere, ci troviamo per certi versi di fronte ad un nostalgico salto nel passato tsukamotiano in cui ritornano con rinnovata forza le suggestione metalliche di un tempo. Meno “belle” da vedere perché meno artistiche, se così si può dire, ma che comunque mantengono intatte una potenza disorientante difficilmente imitabile (prendete 964 Pinocchio per capire la differenza tra Tsukamoto e chi vorrebbe esserlo) che con Haze si amplifica in una regia che davvero annienta qualunque coordinata fisica. È difficile, a volte, solo capire in quale posizione si trovi il protagonista, se sdraiato o in piedi, ed è quantomeno problematico comprendere cosa gli stia accadendo, quale tortura disumana gli stia toccando. Di certo non è una roba piacevole, e questo lo filtriamo dalla regia atomica di Tsukamoto. L’orrore che c’è in questo film è dato più dalla tecnica che dai contenuti. Anche questo è cinema. Notevole, ovviamente.
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