scritto da Vanessa Forte.
“Non si deve piangere al pensiero di un caro che non c’è più. Questo confonde i morti. Meglio compensare con una buona azione”.
Hearth of a Dog è una realizzazione profondamente emotiva senza mai essere patetica o ricattatoria. La Anderson usa il suo grande talento per plasmare la sofferenza in un’opera che parla dei due temi universali per eccellenza, ovvero l’amore e la morte, passando così dall’astratto dell’arte al concreto della vita. Perché il dolore emotivo si sente. È una lama che brutalmente scava nell’anima. Allora Laurie scava profondamente senza paura e quasi senza remore nel suo cuore. Parla di sé, della sua esistenza, dei suoi amori e quindi dei suoi fantasmi, perché “ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”, che bisogna imparare a lasciar andare urlandogli nelle orecchie per il bene sia di chi va sia di chi resta. In questa ricerca la sua amata cagnolina Lolabelle diventa il “sentiero meno arduo attraverso il quale si può giungere a parlare di morte in generale” ed elaborare così in particolare il lutto per la perdita più recente e forse più straziante subita dalla regista: quella del compagno di una vita, il (non a caso) mai nominato Lou Reed.
Pur affermando di amare la narrazione, fedele a se stessa la Anderson si spoglia del suo Io e ci accompagna nel suo subconscio, nel suo Es, dove tutto appare confuso finché non si realizza che ogni cosa assume significato solo per associazione. Il cuore della coraggiosa Lolabelle, che non rinuncia alle passeggiate nel sud della California pur guardando in alto per difendersi dall’attacco dei falchi, diventa il cuore della vera America. Non quello post 11 settembre che, appesantito dai sospetti, spia e non osserva. Perde così la gioia di vivere ed è quindi destinato a indurirsi e atrofizzarsi sempre più, fino a spegnersi.
Dunque Hearth of a Dog è un dignitoso, lacerante pianto d’addio senza lacrime. Una struggente dichiarazione d’affetto. Lei non chiede simpatia. Ci chiede e ci lascia osservare mentre si dibatte nell’impossibile (e nel suo caso altruistico) compito, che ci accomuna tutti, di razionalizzare e sublimare le proprie pene arrivando alla conclusione che, forse, “lo scopo della vita è la liberazione dell’amore”.
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