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Un anno dopo Daisy Diamond (2007), capo d’opera dell’autore e monumento cinematografico con cui la critica dovrà fare i conti prima o poi, era lecito aspettarsi chissà quale virtuosismo da parte del regista danese, invece Himlens hjärta è un film, per trattarsi di Staho, incredibilmente classico, senza peripezie metatestuali né sperimentazioni varie. La punta del compasso viene fissata su due coppie di mezza età in crisi matrimoniale, e il cerchio che esso disegna racchiude in sé le innumerevoli insicurezze di un rapporto ventennale ormai logoro caratterizzato da desideri notturni e tradimenti reali.
Non è la stasi generale che sorprende, sarebbe folle dimenticarsi di Dag och natt (2004) e del suo gemello Bang Bang Orangutang (2005) dove l’assenza di movimento certifica l’essenza delle due opere, bensì i temi trattati che per una volta non sono particolarmente drammatici (anche se la fine di un amore è pur sempre un doloroso capolinea) né ostentati (anche se l’esibizione stahiana è ben lungi dall’ auto-specchiarsi), tutto ciò comporta uno spiazzamento dettato dalla semplicità globale della pellicola.
Superata l’empasse di disorientamento, con l’inoltrarsi nella storia ci si accorge di come in realtà l’opera contenga alcuni topoi decisivi per la sua riconoscibilità. Aldilà del classicismo che in alcune recensioni viene riportato al cinema di Bergman, si può notare che:
1) non ci sono riprese esterne, lo svolgimento è recintato in maniera totale all’interno delle abitazioni.
2) gli arredi delle suddette sono minimali; pochi quadri, colori soft, luci soffuse.
3) l’attenzione è allora riposta in maniera esclusiva sui 4 attori che avrebbero potuto essere tranquillamente su Marte che niente sarebbe cambiato.
Il punto 1 riporta alla mente il dittico citato all’inizio che si svolge all’interno di un’automobile; ciò che non fa parte del micro mondo raccontato dalla mdp è superfluo. In questo caso la vita oltre le mura di casa delle due coppie viene lasciata all’immaginazione spettatoriale, si apprende qualche informazione e nulla più. Ovviamente per rendere credibili i protagonisti è necessario uno sforzo imponente in fase di sceneggiatura per non rischiare di farli diventare delle sottili macchiette, e la premiata ditta Staho-Asmussen, come al solito, non cade in fallo sull’argomento.
Il punto 2 non va sottovalutato perché una cornice scarna e scarica come quella rappresentata potrebbe alla lunga pesare visto che è praticamente il set di tutto il film. Si sfugge alla possibile noia perché, e qui veniamo al punto 3, le dinamiche relazionali fra i 4 convincono anche il mio scetticismo, perché non avvertire monotonia nel sentire dei tizi che parlano intorno a un tavolo per un’ora e mezza è un’ottima cosa, perché la disillusione dei personaggi è attinente a quella che vige nella nostra società, perché l’adulterio, per una volta, ha poco a che fare col sesso, piuttosto con la voglia di evadere. Merito del regista, ma merito del gruppo di attori che ripresi costantemente dalla vita in su devono sfoggiare tutto il repertorio di mimica facciale che possiedono, con il solito Mikael Persbrandt che sebbene ci offra un’interpretazione sotto traccia sa trasmettere molto aldilà dello schermo.
Un film normale quindi, e forse, alla luce della carriera di Staho anche un film definibile come minore. Non è da sottovalutare a mio avviso, sebbene il tema sia parecchio inflazionato, saperlo maneggiare bene comporta le sue difficoltà che l’autore si lascia abilmente alle spalle.
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