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HELLFEST @Clisson 20/22 giugno 2014

Creato il 26 giugno 2014 da Cicciorusso

hellfest main

Esco dal cesso per disabili dell’aeroporto di Barcellona e incrocio un inserviente che mi guarda storto. Mi giro e lo vedo precipitarsi dentro per controllare con cura in terra, casomai avessi lasciato siringhe in giro. Non credo di sembrare un eroinomane ma sicuramente non ho un bell’aspetto. Vestiti stazzonati, barba di cinque giorni, sguardo stravolto. E quella dannata puzza di piedi che mi circonda come un’aura. Non sono io, è il fottutissimo camembert che ho pensato bene di acquistare come souvenir. La prossima volta opterò per una bottiglia di vino. Ogni volta che apro lo zaino per recuperare qualcosa, escono delle zaffate devastanti e faccio allontanare chiunque nel raggio di cinque metri. L’aereo da Nantes è arrivato con un ritardo di un’ora e mezza e ho perso la coincidenza per Roma. Il prossimo volo utile partirà all’alba. E sono appena le 20. Ma nemmeno la prospettiva di una notte in aeroporto da solo (i miei compagni di viaggio sono partiti di buon mattino) riesce a buttarmi giù e sorrido del contrattempo. In realtà sono ore che sorrido da solo come un cretino. Perché questi tre giorni di Hellfest sono stati una delle cose più divertenti che abbia fatto da vestito.

DAY 1

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Il team di Metal Skunk durante una sordida pausa pranzo

Biglietto, voli e alloggio (uno spazioso e attrezzatissimo residence alla periferia di Nantes individuato dal grim & frostbitten Miscèl Romanì, hail and kill a lui per l’ottima scelta) prenotati già in inverno, avevamo passato i mesi precedenti a studiare con metodo maniacale una delle migliori bill possibili. Finiremo per vedere la metà di quanto ci eravamo prefissati. La prima regola dell’Hellfest è questa: non fatevi programmi troppo ambiziosi e concentratevi solo su quello che non siete davvero disposti a perdere. Lo capiremo solo dopo il primo giorno, una volta prese le misure. È veramente impossibile pretendere di spararsi dodici-tredici ore di concerti ininterrotti. Non solo perché siamo esseri umani che devono mangiare, abbeverarsi, pisciare e riprendere fiato ma perché se non si cazzeggia un po’, se non ci si lascia prendere dal flusso di un pubblico rilassato, colorito ed educato che è di per sé uno spettacolo nello spettacolo, ci si perde parte dell’esperienza. Ma del contorno scriveranno più nei dettagli Charles, Trainspotting, il Messicano e Stefano Greco (già presente lo scorso anno) negli articoli che usciranno in seguito. Oggi si parla soprattutto di musica. E si parte dagli M.O.D., il primo gruppo che riesco a seguire dopo aver varcato i cancelli dell’Inferno nel primo pomeriggio, mentre i POWERMAN 5000, residuato anni ’90 la cui riesumazione appare alquanto difficile da giustificare, zompavano sul secondo main stage. Si parte in quarta con classiconi del calibro di Thrash or be thrashed. Billy Milano intrattiene il pubblico con i suoi soliti monologhi ma fatica a suscitare reazioni perché qua l’inglese non lo capisce veramente nessuno. Io stesso, ogni volta che chiedo una bottiglia d’acqua al bar, faccio una fatica del diavolo a farmi capire e sono costretto a ricorrere a quelle poche parole di francese che so mettere insieme. Non conoscendo la pronuncia esatta di eau, vado per tentativi. OH. OU. EOU. EHOOO. Sembro un barese che cerca di attaccare briga. La seconda parte del set è composta, per mio sommo gaudio, solo da pezzi degli S.O.D. E di pezzi degli S.O.D. in mezz’ora ce ne stanno tanti. Milano Mosh, Fist Banging Mania, Fuck the Middle East, l’immancabile United Forces. Quando si dice partire col piede giusto.

kylesa
Dal main stage all’aperto mi sposto sotto il tendone che ospita The Temple e The Altar, i due palchi, posti uno di tre quarti rispetto all’altro, dedicati al black metal l’uno, al death l’altro. Il sole è spietato e molta gente vi si è rifugiata per cercare un po’ d’ombra con gli HAIL OF BULLETS di sottofondo. Il loro death bellicoso e cadenzato è una mazzata anche dal vivo ma i suoni non li aiutano. Purtroppo andrà ancora peggio con gli IMPALED NAZARENE, del cui show non si capirà un’emerita fava, con il basso che rimbomba su tutto e rende i pezzi difficilmente identificabili. Mika Luttinen resta un idolo assoluto, la gente poga e si diverte. Li avevo visti qualche settimana prima a Milano, di spalla agli At The Gates, e mi confermo perplesso dal loro ostinarsi a proseguire con una sola chitarra dopo l’addio di Jarno Anttila, scelta che li limita nella costruzione di una scaletta che, per un fan sfegatato come il sottoscritto, lascia a desiderare. Si chiude, secondo tradizione, con Total War/Winter War e ci buttiamo sotto al palco a strepitare il coro. Subito dopo ci sarebbero i Nocturnus A.D. ma decidiamo di farci un giro e guardarci intorno. Mentre sono in fila al bar, ascolto distrattamente parte dell’esibizione dei SEPULTURA. Derrick Green attacca un pippone per replicare a certe recenti, poco simpatiche, dichiarazioni. Fanculo, noi siamo i Sepultura, siamo qui per restare eccetera. Parte Propaganda e un po’ mi prende male. Quando, dopo qualche canzone più recente, arriva Roots Bloody Roots, mi allontano. È troppo per me. Green mi sta simpatico, stimo Andreas Kisser e tutto quanto ma i Sepultura hanno significato troppo per me in gioventù perché possa guardarli oggi senza riaprire una ferita mai davvero rimarginatasi nel ’97. Igor Cavalera di recente ha dichiarato che sarebbe stato meglio se si fossero sciolti dopo la sua uscita. Per me sarebbe stato meglio se si fossero sciolti dopo Roots. Anche dopo Chaos A.D., volendo. Mi dirigo verso The Valley, il secondo tendone al chiuso, consacrato a stoner e affini, per spararmi un po’ di KYLESA. Dal vivo puntano tutto sui brani più aggressivi e quadrati, il che, dato il contesto, si rivela un’opzione vincente. Ma dopo una ventina di minuti tocca allontanarsi in cerca di una posizione decente dalla quale vedere gli IRON MAIDEN.

maiden
La calca è indescrivibile. Non si passa. A un certo punto scoppia una mezza rissa tra due tizi e si inizia a traballare pericolosamente. Per qualche secondo temiamo di finire come alla stadio di Heysel. Torniamo indietro e ci infiltriamo davanti piano piano, con l’esperienza dei vecchi marpioni. La scaletta è sempre quella del tour di Maiden England che mi ero già goduto al Sonisphere di Milano con qualche minima variazione (Revelations e Sanctuary sostituiscono Afraid to Shoot Strangers e Running Free, The Clairvoyant viene tagliata) e suoni decisamente peggiori (gli sbalzi di volume iniziali gridavano vendetta al cielo). Onestamente mi sono divertito un po’ meno, e non solo perché è difficile riprovare le stesse emozioni vissute ascoltando per la prima volta un set così spettacolare. Intorno a me c’è un sacco di gente alla quale sembra non importare granché, tanto che nel nostro “settore” il coro MAI-DEN MAI-DEN siamo costretti a chiamarlo noi. E non c’entra il fatto che non fossimo nelle prime file. A Milano eravamo un unico cuore pulsante di amore per la Vergine di Ferro. Ci abbracciavamo e cantavamo tutti. Si tratta di un semplice appunto personale, è normale che festival del genere diventino un po’ dispersivi anche con headliner del genere. E poi, beh, i Maiden sono sempre i Maiden. Sono come la mamma, si amano senza discutere. E con questo credo di non avere davvero altro da aggiungere.

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Dopodiché mi trovo di fronte a una scelta lacerante: vedere o non vedere gli SLAYER? Come sapete, ho preso molto male la loro scelta di continuare come se niente fosse dopo la morte di Hanneman, quindi, invece di godermeli e basta, preda di puerili questioni di principio, ascolto l’inizio del concerto da lontano, dando le spalle al palco. Che coglione, direte voi, e avete ragione. Infatti a un certo punto non ce la faccio più. Mi alzo e mi avvicino il più possibile per la seconda metà del concerto, composta da tutti i capisaldi obbligatori, da Seasons in the Abyss a Angel of Death. E niente, sono stati fantastici, uno dei tre o quattro migliori show di tutto l’Hellfest. Prestazione perfetta, suoni (almeno stavolta) perfetti, pure Tom Araya era in serata. Alla fine ho deciso che non me ne frega un cazzo e che ogni volta che avrò la possibilità di vedere gli Slayer, anche in trasferta, ci andrò senza discutere. Alla fine, si ragionava con il Messicano, Gary Holt non è l’ultimo stronzo preso per strada e Paul Bostaph, oltre a essere una grossa parte della storia della band, da certi punti di vista, rende addirittura meglio di Dave Lombardo. Non ha senso fare troppi paragoni tra due colossi delle pelli come loro, ma fa piacere ascoltare quei pezzi con uno stile ritmico diverso, magari meno estroso e personale ma più compatto e violento. Insomma, gli Slayer sono una cosa talmente incommensurabile che non si può rovinare. Poi, certo, se evitano di pubblicare un altro disco è pure meglio.

Nonostante ogni ora suonassero tre gruppi in contemporanea, alternandosi su sei palchi, la bill era costruita talmente bene che l’unico vero dilemma che mi si è posto era quello di stanotte: Enslaved, Electric Wizard o SABATON? Alla fine ho optato per questi ultimi, ché le perversioni vanno soddisfatte, e non me ne sono pentito. Un festival del genere è il contesto che più si attaglia agli svedesi: cori da stadio, pugni alzati e mid-tempo scapoccioni. Joakim Brodén è un intrattenitore nato che non smette mai di scherzare col pubblico. Sostiene che loro non sono i Sabaton, bensì i Village People che suonano cover dei Sabaton. Insiste finché tutto il pubblico non li acclama come tali e ci fa intonare il ritornello di YMCA. Il mio primo giorno di Hellfest si conclude cantando Primo Victoria. Ci sarebbero stati anche i Death Angel all’una di notte ma stiamo tutti a pezzi e i prossimi giorni prima delle due non ce la caveremo. Tutti a casa, quindi.

DAY 2

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Il possente corvo Blashyrk, nostro punto di riferimento (in tutti i sensi) per questi tre giorni

Arriviamo nel tardo pomeriggio. Mi girano le palle per essermi perso gli Incantation ma, lo ripeto, pensare di riuscire a vedere tutto ciò che si desidera è utopico. Riesco a mettermi tra le prime file per i GORGUTS. Bravi e tutto quanto, però il loro death tecnico e intricato è più adatto a un club da poche centinaia di posti, e i suoni inadeguati che funestano The Altar più di ogni altro palco non giocano a loro favore. Subito dopo corro verso l’attiguo The Valley per i CLUTCH ma faccio fatica persino a entrare nel tendone. C’è talmente tanta gente che in centinaia sono costretti a vederseli da fuori. Earth Rocker deve aver allargato notevolmente il pubblico di Neil Fallon e compagni, che regalano a una folla fitta e caldissima quello che, tenendo fuori i mostri sacri (Sabbath, Slayer e Maiden), è stato il miglior concerto che ho visto in tre giorni ex aequo con i Turbonegro. Mob Goes Wild, citando il titolo di una delle loro canzoni più famose. Le tipe fanno crowdsurfing con le tette di fuori. Su D. C. Sound Attack quasi mi sfascio un piede a furia di saltare. Semplicemente immensi.

Per i BRUTAL TRUTH è il tour d’addio, quindi bisogna vederli per forza. Anche questa volta mi hanno ricordato perché sono il mio gruppo grind preferito e quando ci salutano mi scatta la lacrimuccia perché so che non li potrò rivedere mai più. Ma non c’è tempo per commuoversi, tocca subito riaffacciarsi su The Valley per i MONSTER MAGNET. Dato che nel frattempo stanno suonando i Deep Purple, c’è molta meno gente e me li godo da una posizione più avanzata. Dave Wyndorf è dimagrito ed è dannatamente in forma. Niente svarioni psichedelici, si va dritto al sodo con una scaletta mostruosa basata solo sui primi quattro dischi, dai quali vengono pescate due tracce a testa in ordine pressoché cronologico. Avrei gradito sentire qualcosa da Last Patrol ma sticazzi: altro concertone memorabile. E, quando Space Lord chiude le danze, vorresti restassero con noi ancora un po’.

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Non sono mai stato un grande fan degli AEROSMITH, headliner della serata, quindi non me ne vogliate se, reduce da quattro ore di scapocciamento di fila, mi prendo una pausa per soddisfare i bisogni fisiologici e ne approfitto per farmi un giro sulla ruota panoramica che sovrasta l’area del festival. Solo da là in alto mi rendo conto di quanti siamo. Non so più se questi giorni sono fuori dal mondo o sono nel mondo come dovrebbe essere. Recuperate le forze, un salto da PHIL ANSELMO tocca farlo. Fieramente imbolsito, non ha più voce e canta quasi sempre con un sommesso growl. Ma gli vogliamo bene comunque. Insieme ai suoi Illegals, esegue pure Death Rattleperché le canzoni dei Pantera ormai sono di tutti” (giusto) e, tra un monologo e l’altro, viene recuperato pure qualcosa dei Superjoint Ritual. Ma dopo un po’ bisogna andarsene di nuovo, che non voglio essere costretto a guardare i CARCASS con il binocolo che non ho. Set da intenditori: nulla da Swansong (sigh) e estratti da Heartwork ridotti al minimo sindacale. I brani da Symphonies of sickness e Necroticism vengono riarrangiati da un Bill Steer protagonista (pure troppo) e c’è anche spazio per un medley di Reek of putrefaction. Si sente che ci credono e che si sono riformati perché pensavano di avere qualcosa da dire. Captive bolt pistol e The granulating dark satanic mills sono qui per ricordarcelo. Jeff Walker ci loda per essere in tanti là sotto mentre sul main stage, all’esterno, stanno suonando gli Avenged Sevenfold (“siete voi i veri metallari, mica quegli stronzi là fuori!“) e il suo inconfondibile latrato è urticante come vent’anni fa. Peccato per i toni alti troppo sparati, che hanno messo un po’ in ombra il lavoro dietro le pelli del bravissimo Daniel Wilding. Pazienza, ce li godremo con più calma all’Agglutination.

DAY 3

hellfest_gente
Anche oggi ce la prendiamo comoda, forse un po’ troppo, tanto che, girando per Clisson in cerca di qualcosa di commestibile, ci perdiamo gli Unleashed. Ogni giorno ha la sua rosicata e non può essere altrimenti. Mentre gli ANNIHILATOR concludono la loro esibizione con Human insecticide, ci inoltriamo verso le prime file dell’altro main stage per i DARK ANGEL. La loro presenza, annunciata all’ultimo momento in sostituzione dei Megadeth, è stata la ciliegina sulla torta, dato che stavo per organizzare un’avventuristica trasferta a Oulu ad agosto pur di vederli. La formazione è quella di Time does not heal, dal primo all’ultimo membro. Ron Rinehart non ha perso smalto e trasuda gentile umiltà. Sono quasi le sette di sera ma il sole picchia più duro di Gene Hoglan. Il cantante vede un tizio nelle prime file che sta collassando e si avvicina per verificarne personalmente le condizioni, chiede alla sicurezza di spruzzare un po’ d’acqua sulle prime file e, siccome nessuno risponde (anzi, No one answers) ci lancia qualche bottiglia d’acqua. Un grande. La scaletta è da lacrime, quella che avrei steso io se me lo avessero chiesto, ovvero, quella che ogni fan avrebbe voluto ascoltare. Darkness descends, The burning of Sodom, Never to rise again, Death is certain (life is not) dedicata a Dave Ellefson (il forfait dei Megadeth è stato dovuto alla morte di suo fratello) e così via. Mancava giusto Pain’s invention madness, gli altri classici c’erano tutti. Compatti e incazzati, non ci si crede che non suonassero insieme dal 2005, anno in cui un incidente di cui fu vittima Rinehart pose fine alla loro prima reunion. Mi svito il collo a furia di headbanging e mi spello le mani applaudendo. Bentornati.

Siccome dei Behemoth non frega nulla a nessuno, ci rifocilliamo e ci accampiamo davanti alla transenna del primo main stage per tributare dalla prima fila i giusti onori all’Imperatore. È da lì che seguiamo i SOUNDGARDEN, impegnati sull’altro palco principale (erano due, uno di fianco all’altro). L’anima in pace ce l’eravamo già messa, perché lo sappiamo benissimo che Chris Cornell non ce la fa più. Peccato, perché il resto della band non perde un colpo e neanche un cantante al capolinea da anni riesce a distruggere Spoonman, Outshined e Rusty cage, sparate tutti di seguito. Così non è leale, però, Quei brani hanno significato talmente tanto per noi, in gioventù, che un po’ ci emozioniamo lo stesso. Circondato da truci blackster integralisti, canto Fell on black days a occhi chiusi e per qualche minuto ho di nuovo quindici anni. Poi Cornell pecca pesantemente di ὕβϱις cimentandosi con Jesus Christ Pose e torno bruscamente alla realtà. Perlamadonna, Jesus Christ Pose era già tosta quando… Beh, quando eri ancora Chris Cornell, allora dillo che te la vai a cercare col lanternino. Sigh.

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Del concerto degli EMPEROR parleranno più nei dettagli Roberto e Michele. Certo, sarebbe sufficiente scrivere che hanno suonato tutto In the nightside eclipse e che è stato fottutamente epico. Perché vi rendiate conto, trovate a questo link le riprese professionali dell’intero concerto a cura della televisione francese Arte. Ancor più difficile è trovare le parole giuste per i BLACK SABBATH. Forse non ce ne sono proprio. Tony, Geezer e Ozzy insieme su un palcoscenico a suonare capolavori immortali come Into the void, N.I.B. e Snowblind. Uno spettacolo, irripetibile e immenso come l’universo stesso, che fino a un anno fa non speravamo di poter vedere senza una macchina del tempo e che, molto probabilmente, non vedremo mai più. L’acme della mia vita di metallaro. Sono brividi veri quelli che provo mentre vengono scanditi i tre accordi di Black Sabbath. Mi viene quasi da piangere. Il pubblico è un po’ freddino, tanto che Ozzy Osbourne ci deve incitare a chiamare il bis. Ma ci sta, siamo tutti stanchi dopo tre giorni di Inferno. Il madman, invecesta fin troppo in forma per un ultrasessantenne con un passato di stravizi che ha pochi paragoni. Salta, corre da una parte all’altra e, soprattutto, canta bene. Giusto su God is dead scende di un’ottava, probabilmente per riposarsi. Geezer Butler, ineffabile, sta fermo in un angolo. Tony Iommi, beh, è Tony Iommi, la persona più fica del mondo, punto. Non sa manco se il linfoma è regredito o meno, dato che – per sua stessa ammissione – ha sospeso i controlli per il tour, e sta lì, che sorride sornione, parlotta con Ozzy tra un pezzo e l’altro. Chissà che si dicono. Rat salad si trasforma in un assolo un po’ lungo ed eccessivo del comunque ottimo Tommy Clufetos, durante il quale i volumi della batteria vengono sparati a mille e lasciati così pure per il brano successivo. E quindi su Iron Man non sentiremo bene la chitarra ma tanto il riff lo stiamo cantando noi. Il set è più breve di quello solito del tour di 13 ma è pur sempre un’ora e mezza di sussulti che quasi mi fanno scoppiare il cuore. Quando ci congedano (addio o arrivederci?) con Paranoid, commentiamo estasiati ma il Messicano ci blocca: abbiamo appena visto i Black Sabbath, dobbiamo solo fare silenzio. E questa era forse la miglior recensione possibile.

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Tony Sylvester e Nick Oliveri, la coppia dell’anno

E non è mica finita, ci sono ancora i TURBONEGRO, mia unica incursione nel palco Warzone, dedicato prevalentemente a sonorità hardcore e defilato rispetto agli altri. Si inizia con Back to Dungaree High ed è subito party selvaggio. Un altro concerto perfetto, uno dei più esaltanti di questa tre giorni. Tony Sylvester è un frontman con i controcazzi che non fa rimpiangere Hank von Helvete. Il pubblico è ancora più degenerato del solito. Al mio fianco c’è un tizio completamente sigillato in una specie di vestito da mummia che, apparentemente, gli impedisce di vedere e sentire. E, ovviamente, ci sono molte più femmine in giro. Sembra che tutti i gruppi abbiano fatto a gara per tirar fuori la migliore scaletta possibile e i norvegesi non sono da meno. Suonano mezzo Apocalypse Dudes (no, con tutto il rispetto, il miglior disco rock degli anni ’90 non è Nevermind) ma anche i pezzi più recenti spaccano ed è su All my friends are dead che perdo definitivamente il controllo. Ballo, mi dimeno, canto tutti i testi. Stai lì in mezzo a sgolarti con The Age of Pamparius e pensi che tutte le persone che non comprendono perché stare qua sotto sia la cosa più bella del mondo non capiscono veramente un cazzo della vita. Quando chiudono con I Got Erection (no, la più bella canzone della storia non è Imagine, posto che chi pensa una cosa del genere non ce lo voglio sul mio pianeta) sale a cantare il coro Nick Oliveri (impegnato il giorno prima con i suoi Bl’Ast!) vestito da marinaretto. Il miglior finale possibile per una tre giorni che non vedo l’ora di ripetere.

Alla fine proprio quella sera a Barcellona c’era la festa di Sant Joan, quindi ho preso la navetta dall’aeroporto e mi sono buttato in spiaggia in mezzo agli spagnoli che si ubriacavano e tiravano fumogeni. Però, beh, la nostra era molto più bella, di festa. Grazie Satana per avermi fatto metallaro.



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