Quanto segue è il primo capitolo di HELVETE, un libro "scaricabile" gratuitamente dal seguente linK http://viborriello.files.wordpress.com/2011/08/libro-helvete-_di-vincenz...
Helvete è una parola norvegese, che vuol dire inferno. Due ragazzi, Marco e Francesca, fans dell’heavy metal, spariscono nel nulla senza lasciare traccia. Giuseppe, padre di Marco decide di non starsene con le mani in mano e indaga in prima persona per scoprire qual è stata la sorte di suo figlio e della sua amica, ma sarà una giornalista, Marica Guberti a risultare determinante nella soluzione del mistero. Storie di droga, satanismo, esoterismo e fatti di cronaca realmente accaduti s’intrecciano tra loro dando vita a un racconto dal finale inaspettato.
CAPITOLO 1
La mattina dell’1 luglio Bloody Metal magazine, una rivista che tratta di musica heavy metal, letta da giovani, ma anche da vecchi nostalgici metallari, era stranamente arrivato puntuale nelle edicole. Quella volta Bloody Metal non parlava solo di musica, com’era solito fare. Quel numero, il 559, con gli Iron Maiden in copertina che avevano rilasciato un’intervista per promuovere il loro ennesimo doppio cd live e l’immancabile DVD anch’esso dal vivo, in cui giuravano che era il miglior concerto mai registrato da loro, aveva sul retro copertina una foto. Non era la solita foto di una band, né tanto meno la pubblicità di un nuovo cd. Era la foto di un ragazzo, un adolescente dai capelli neri, lunghi. Aveva lo sguardo incazzato, tanto per sembrare più credibile come metallaro. Indossava una t shirt degli Impaled Nazarene , un giubbino di jeans con le maniche tagliate, ricoperto di toppe di gruppi musicali. Con la mano destra, indirizzata verso l’obiettivo della macchina fotografica, con aria fiera, faceva il gesto delle corna; un atteggiamento caro ai metallari. Sulla foto capeggiava una scritta: “ Marco De Biasi – scomparso. Chiunque avesse notizie si metta in contatto con le forze dell’ordine oppure con la redazione di Bloody Metal”. Ma chi era Marco? Di sicuro un lettore di quella rivista ed è per questo che Giuseppe, suo padre, milanese d’adozione, immigrato nel capoluogo lombardo dal profondo sud, venti anni prima, aveva chiesto al direttore di Bloody Metal di pubblicare quella foto, sperando che lo stesso Marco, vedendola su quel magazine che comprava tutti i mesi, si decidesse a dare sue notizie. Sarebbe bastata anche una semplice telefonata per acquietare l’animo in subbuglio dei suoi genitori. Marco sognava di comparire un giorno su Bloody Metal, ma non in tali circostanze; fantasticava di finire su quelle pagine patinate insieme alla sua band, i Vomit of God. Lo raccontava sempre al padre, quando lo accompagnava alle prove della sua band, in quel vecchio scantinato ammuffito con le pareti ingiallite dal fumo delle sigarette e umide per le infiltrazioni della pioggia. Non certo il posto ideale per tenere degli strumenti musicali. Era però di quanto meglio la band potesse permettersi visto il budget a disposizione. Marco era il chitarrista, ma era anche uno studente, e per la sua promozione aveva chiesto al papà una chitarra nuova, una Jackson, di colore nero, con i pick up humbucking , come quella che usano alcuni dei suoi chitarristi preferiti. Una di quelle chitarre che ti permette di suonare riff pesanti, in grado di abbattere i muri. La promozione di Marco non era così scontata, ma Giuseppe a sua insaputa aveva già comprato lo strumento, aspettava solo qualche giorno ancora prima di darlo a suo figlio. Marco è scomparso la sera del 6 giugno 2006, il 6/6/06, una data che probabilmente non ha nulla di particolare, se non fosse che è la data della scomparsa del ragazzo, ma a rifletterci un attimo su, quella data ricorda il numero della bestia, il 666. Six six six the number of the beast cantavano gli Iron Maiden, la band preferita da Marco, che quella sera non fu il solo a sparire. Da quello stesso giorno, si erano perse le tracce anche di Francesca Chiari, una ragazza di 16 anni, la stessa età di Marco, anche lei di Milano, anche lei studentessa e sua cara amica. Si erano conosciuti tra i banchi dell’asilo, all’epoca Francesca portava le treccine. Le guance perennemente rosse, lo sguardo vispo e sempre sorridente, allegra. La contemporanea scomparsa dei due ragazzi, aveva fatto pensare ad una fuga d’amore, ma era passato un mese dalla loro sparizione e ormai si pensava al peggio. Francesca era una fan dell’heavy metal, di quello estremo. Le piaceva il black, il death, nella sua stanza c’era un piccolo altare, un drappo nero con disegnato un pentacolo capovolto, e poi tante candele, anch’esse nere, bastoncini d’incenso e un paio di teschi. Francesca amava passeggiare nei cimiteri, di quelli monumentali. Le piaceva farsi fotografare in quei luoghi di lugubre pace. Su una parete della sua camera, capeggiava una foto che la ritraeva distesa sul freddo marmo di una tomba; la pelle pallida, indossa una lunga veste nera, gli occhi chiusi, l’avambraccio adagiato sul suo petto e fra le dita una rosa. L’altro braccio penzoloni, verso il suolo, poi ancora, una foto di Francesca accanto alla statua di un angelo con il volto devastato dal dolore e dalla pietà. Si! Lei amava passeggiare per i cimiteri, farlo di notte quando il silenzio era assoluto e la luce aveva cercato rifugio altrove. Non era la sola, condivideva questa passione con altri suoi amici. La stanza, era rimasta così come l’aveva lasciata Francesca, prima di sparire nel nulla, con i suoi cd musicali custoditi come reliquie. Giulia, sua madre, non approvava la passione e il modo di vestire di Francesca, sempre con abiti neri, borchie, catene, poi quell’altare… ma non dava poi tanto peso alla cosa. Credeva si trattasse solo una fase adolescenziale, qualcosa che sarebbe passato con il trascorrere degli anni. Una fase di ribellione che tutti gli adolescenti vivono, cosi pensava Giulia, che sognava sua figlia, tra qualche anno con una laurea, perché lei a scuola andava bene, la immaginava madre e soprattutto felice. Francesca non c’era più, non si sa dove fosse, non si sa perché fosse scappata, ammesso che di fuga si trattava, ma la speranza di Giulia, e di Giovanni, suo marito, era che Francesca fosse con Marco, che fossero fuggiti insieme e che prima o poi sarebbero ritornati. Dove fossero finiti, i due ragazzi non lo sapevano neanche i loro amici, con cui passavano gran parte del tempo libero, e con cui condividevano le loro passioni, come la musica, l’occultismo e una certa forma di satanismo infantile. Roberto De Rossi, detto Burzum, 20 anni, operaio di professione. Lo chiamavano così perché si vantava di aver appiccato il fuoco a una piccola chiesa di un paesino in provincia di Bergamo, Valsecca, poco più di 400 abitanti, proprio come aveva fatto anni addietro Varg Vikernes, più conosciuto come Count Grishnackh, mente della one man band Burzum . Varg, nel 1992 a Fortun, in Norvegia, vicino la ben più nota città di Bergen, diede fuoco alla Stavkirke di Fantoft, una chiesa del 1150. I genitori di Burzum (non l’originale che per uno scherzo del destino era stato battezzato con il nome di Kristian e che in seguito cambiò nome in Varg), avevano una casa lì e insieme alla sua famiglia ci passava le vacanze. La leggenda narra che in una calda notte d’estate, dopo una passeggiata nei boschi, che Roberto era solito fare, guidato da un non ben specificato demone, si trovò davanti una chiesa con annesso un piccolo cimitero. Giunto lì il demone, stando a quello che spesso raccontava Roberto ai suoi amici, gli disse di tornare la notte successiva con una tanica di benzina e dare fuoco alla chiesa. A dire il vero le cronache di allora non riportarono mai la notizia di una chiesa data alle fiamme nel paese di Valsecca e neanche i suoi amici gli credevano, quando raccontava questa storia che ingigantiva di volta in volta. Roberto era un simpatizzante del nazismo. Almeno così diceva, perché in verità lui non capiva nulla di queste cose. Non capiva di politica, non conosceva la storia perché a scuola era sempre stato una frana, aveva interrotto gli studi a 14 anni. Era solito usare i termini ebreo, negro, in modo dispregiativo. Era questa la sua concezione di nazismo. Le simpatie naziste non erano l’unico difetto di Roberto. Non aveva solo la passione per la musica metal, per l’occultismo; aveva altri due interessi: gli piacevano l’alcool e le droghe. Una passione, come le altre, condivisa con gli altri amici del gruppo, ma lui era quello che con alcool e droga ci andava giù più pesante. Poi c’era Mario Borlotti, un ragazzo di 19 anni che lavora come macellaio. La lunga chioma nera gli copriva perennemente il viso ed occultava una brutta cicatrice poco più su dell’occhio sinistro. Mario faceva parte della band di Marco, i Vomit of God, cantava, aveva una voce potentissima, gutturale. I suoi amici dicevano che quando era al microfono sembrava di ascoltare Lucifero in persona. Anche lui era interessato al mondo dell’occulto, scriveva i testi per la sua band, parole crude, qualcuno potrebbe definirle blasfeme. Frasi come: “Hai un crocifisso tra le gambe per sembrare una santa, scopati pure il Signore, hai la mia benedizione” oppure “La mia anima stuprata grida vendetta, battezzato in acqua santa purificato nel fuoco dannato” Marco, invece, si occupava di scrivere la musica. Era lui a comporre i riff che poi uniti ai testi di Mario, sarebbero diventate le song che avrebbero costituito il futuro demo dei Vomit of God, il titolo era già stato scelto, “ In nomine Satanas” cosi come la copertina, disegnata dallo stesso Marco, in bianco e nero, nel pieno stile delle band di True black metal, di quelle provenienti dalla Norvegia, la patria di Burzum, i cui mari secoli addietro erano solcati dalle navi vichinghe, un popolo e una cultura che affascinavano molto Marco e gli altri ragazzi della comitiva, che spesso confondevano e mescolavano paganesimo nord europeo e satanismo. La copertina raffigurava un diavolo che divora il corpo senza vita di Gesù, in cima capeggiava, fiero e maestoso, il logo della band, quasi illeggibile: Vomito of God. Della comitiva fa parte anche Davide Badoin, detto Thor , appassionato di mitologia nordica, giochi di ruolo, libri fantasy. Avido divoratore delle opere letterarie di Tolkien al punto da chiamare il suo cane, un rottweiler di colore nero, grandissimo, Nazgul. Aveva una dedizione maniacale per una band in particolare, i Bathory di cui indossava sempre le T shirt. Con la sua band, gli Infernal Soul, proponeva numerose cover dei Bathory durante le esibizioni dal vivo davanti alle solite trenta persone che frequentavano i locali metal della zona di Milano e dintorni. Thor è un medium, o almeno cosi dice lui. Sì uno di quei tizi in grado di mettersi in contatto con gli spiriti, di parlare con l’aldilà, con l’oltretomba come ama definirlo qualcuno, sì oltretomba suona meglio, ci si potrebbe dare un nome del genere a una band, gli “Oltretomba”, suona da Satana, com’era solito dire Marco, in luogo di “suona da Dio” perché Marco odiava quel vocabolo, la parola Dio. La pronunciava solo se accompagnata da altre parole, come porco dio (che scriveva sempre rigorosamente in minuscolo) dio cane, dio bastardo. Davide organizzava spesso sedute spiritiche con gli altri ragazzi, in particolare Francesca era affascinata dai poteri di medium di Davide e avrebbe voluto anche lei imparare a contattare i morti. La morte la affascinava, la seduceva, così come l’occultismo. Per le sedute spiritiche dapprima erano soliti riunirsi nel garage della casa di Roberto Burzum, ma lì non potevano sballarsi liberamente, così in seguito individuarono un bosco appena fuori la città di Milano, un posto tranquillo e con l’atmosfera giusta per fare certe cose.