Firenze, 5 aprile 1874
Mi avevano detto che avrei trovato molto mutata l'Italia: c'è spazio per i mutamenti in ventisette anni. Ma per me ogni cosa è invariata, al punto che mi sembra di rivivere la giovinezza; mi ritornano tutte le impressioni dimenticate di quella stagione magica.
Allora furono molto forti; in seguito sono sbiadite. Che cosa ne è mai stato? Che accade alle impressioni nei lunghi intervalli della coscienza? Dove vanno a nascondersi? In quali stipi, in quali anfratti inesplorati del nostro essere si annidano? Assomigliano alle righe di una lettera vergata con l'inchiostro simpatico: tenete la lettera al fuoco per un po' e il grato tepore farà trapelare le parole invisibili.
È il tepore di questo sole dorato di Firenze a ricomporre il testo della storia d'amore della mia giovinezza, oggi spiegata davanti a me come una nitida pagina bianca e nuova. Ci sono stati momenti in questi ultimi dieci anni nei quali mi sono sentito così prodigiosamente vecchio, così spossato ed esaurito che avrei considerato uno scherzo di pessimo gusto un accenno qualsiasi al fatto che fosse in serbo per me l'attuale sensazione di giovinezza. Non durerà comunque; per questo è bene che ne faccia l'uso migliore. Eppure ne sono stupito, lo confesso. Ho condotto una vita troppo seria, ma forse questo conserva la giovinezza. In ogni caso i miei viaggi mi hanno portato troppo lontano, ho lavorato con troppa intensità, sono vissuto in climi brutali a contatto con persone uggiose. Quando un uomo, ormai al suo cinquantaduesimo anno, non si è logorato materialmente - quando gode di discreta salute, possiede un discreto patrimonio, una coscienza pulita e non un solo parente imbarazzante - suppongo che, per delicatezza, sia tenuto a descriversi come un uomo felice. Ma io - lo confesso - rifuggo da quest'obbligo. Non sono infelice: non arriverò a dire questo, o almeno a scriverlo. Ma la felicità - una felicità positiva - dovrebbe essere diversa. Chissà se, misurata in qualsiasi modo, sarebbe stata migliore, nel senso che oggi mi troverei in una situazione migliore. Ma certamente avrebbe portato questa differenza: non mi sarei ridotto, nell'inseguire immagini piacevoli, a dissotterrare un episodio sepolto da più di un quarto di secolo. Avrei trovato gioie - come dire? - più vicine nel tempo. Avrei avuto moglie e figli, non sarei lì lì per commettere - come dicono i francesi - un atto di infedeltà al presente. Naturalmente è stata una grande fortuna che io abbia avuto una via di fuga, che non abbia compiuto un gesto di clamorosa follia. A prescindere dal passo importante che si può fare a venticinque anni dopo una lotta e uno sforzo violenti a prescindere da come la propria condotta possa apparire giustificata dagli eventi, suppongo che rimangano sempre una punta di rimpianto, la percezione di una perdita, latente nella sensazione di essere stati fortunati, la tendenza a chiedersi con struggimento come sarebbe potuto essere. Triste, in questo caso, tristissimo, senza dubbio, il "come sarebbe potuto essere"; lieto e gradevole, invece, il "come è stato". Eppure ci sono una o due domande che potrei chiedermi. Perché, ad esempio, non mi sono mai sposato? Perché non ho mai provato per nessuna donna quello che provai per lei? Ah, perché i monti sono azzurri e il sole è tiepido? Una felicità insidiata da congetture impertinenti - ecco lo scotto.
6
Sapevo che non sarebbe durato; sta già dileguandosi. Ma ho trascorso una giornata deliziosa; ho gironzolato dappertutto. Ogni cosa richiama alla memoria un'altra e nello stesso tempo perdura nel ricordo; la mia immaginazione ritorna al punto di partenza dopo aver compiuto un ampio cerchio.
C'è nell'aria quella fragranza che ricordo bene; i fiori, come un tempo, sono raccolti in grandi fasci e mazzi lungo tutta la base scabra di Palazzo Strozzi. Per un'ora ho vagato nel Giardino dei Boboli; ci eravamo andati insieme numerose volte. Rammentavo quelle giornate a una a una; mi sembravano ieri.
Ho ritrovato l'angolo dove sempre sceglieva di sedersi - la panchina di marmo, tiepida sotto il sole, davanti alla cortina del leccio, accanto all'esuberante statua di Pomona. Il luogo è rimasto intatto, tranne la povera Pomona che ha perduto una delle sue dita affusolate. Sono rimasto seduto là per mezz'ora; strano quanto mi sembrasse vicina. Il luogo era deserto, cioè era pregno di lei. Ascoltavo a occhi chiusi; riuscivo quasi a cogliere il fruscio della sua veste sulla ghiaia. Perché facciamo tante storie sulla morte? Che cos'è in fondo se non una sorta di perfezionamento della vita? Morì dieci anni fa, eppure, mentre sedevo nella quiete assolata, era una presenza palpabile, percettibile.
Da lì mi sono recato nella galleria del palazzo e per un'ora mi sono aggirato di stanza in stanza. Gli stessi grandi dipinti pendevano negli stessi punti; sopra si inarcavano gli stessi cupi affreschi. Due volte, un tempo, mi ero recato lì con lei; aveva una grande sensibilità artistica. Ho indugiato a lungo davanti alla Madonna della Seggiola. Il volto della Vergine non somiglia affatto al suo, eppure me la ricordava. Ma tutto me la richiama alla memoria. Una volta rimanemmo a osservare il dipinto per mezz'ora; rammento ogni sua parola.
8
Ieri ero di umore nero - nero e stufo, e questa mattina, levandomi, avevo una mezza intenzione di andarmene da Firenze. Ma, risalendo la strada lungo l'Arno, guardando in su e in giù - il fiume giallo e le colline viola -, ho deciso di rimanere, anzi non ho deciso nulla.
Mi sono limitato a osservare la bellezza di Firenze e, prima di esserne sazio, ormai di nuovo di buon umore, era troppo tardi per partire per Roma. Ho gironzolato sul lungofiume, e poco dopo è accaduto qualcosa che mi ha ricompensato per essere rimasto. Mi sono fermato davanti a una gioielleria che in vetrina esponeva molti oggetti di mosaico; sono rimasto lì per qualche minuto - chissà perché, visto che non so apprezzare il mosaico. A un tratto mi è venuta accanto una ragazzina - una ragazzina dalle fattezze italiane, arruffata, che reggeva un cesto. Mi sono voltato per allontanarmi, ma, nel girarmi, i miei occhi sono caduti sul cesto. Era coperto da un tovagliolo e sul tovagliolo era appuntato un pezzo di carta con sopra scritto un indirizzo. L'indirizzo ha trattenuto il mio sguardo - era un nome che conoscevo. Era scritto con una calligrafia molto chiara - evidentemente da uno scrivano che compensava con lo zelo la mancanza di bravura. Contessa Salvi-Scarabelli, Via Ghibellina - diceva l'intestazione. L'ho guardata per un attimo in preda a un'improvvisa emozione. Subito dopo la ragazzina, percependo il mio interesse, ha levato verso di me con aria interrogativa due timidi occhi castani.
"Porti il cesto alla contessa Salvi?" ho chiesto.
La ragazzina mi ha fissato. "Alla contessa Scarabelli".
"Conosci la contessa?".
"Conoscerla?" ha mormorato la ragazzina con lieve sgomento.
"La vedi, voglio dire?".
"Sì, la vedo". E poi, dopo un istante, con un subitaneo lieve sorriso: "È bella!", disse. Era bella anche lei mentre lo diceva. "Proprio così; ed è bionda o bruna?".
La bimba ha continuato a fissarmi. "Bionda, bionda", ha risposto guardando intorno a sé il sole dorato a mo' di paragone.
"Ed è giovane?".
"Non è giovane... come me, ma non è vecchia... come...".
"Come me, eh? È sposata?".
La ragazzina cominciava a farsi prudente. "Non ho mai visto il signor conte".
"Abita in via Ghibellina?".
"Sicuro. In un palazzo bellissimo".
Avevo ancora una domanda da farle e l'ho messa in rilievo con certe monete di rame: "Dimmi... è buona?".
La ragazzina ha osservato per un istante quanto teneva nel piccolo pugno scuro. "Siete voi a essere buono".
"Ah, ma la contessa?", ho insistito.
La mia informatrice ha abbassato gli occhioni castani con un'aria di riflessione coscienziosa, impalpabilmente strana. "A me sembra di sì", ha risposto alla fine levando lo sguardo.
"Allora lo sarà di sicuro perché sei molto intelligente per la tua età". E, dopo aver espresso questo complimento, mi sono allontanato lasciando la ragazzina a contare i soldi.
Sono ritornato in albergo stupito per come avevo appreso alcune cose sulla contessa Salvi-Scarabelli. Sulla soglia ho trovato l'albergatore e, accanto a lui, intento a parlargli, un giovane che ho subito intuito essere un mio compatriota.
"Chissà se potete darmi un'informazione", ho detto all'albergatore. "Sapete nulla del conte Salvi-Scarabelli?".
Con gli occhi bassi, guardandosi gli stivali, lentamente ha levato le spalle con un sorriso malinconico: "Mi rammarico, gentile signore, ...".
"Il nome non vi dice niente?".
"Il nome lo conosco, certamente. Ma non conosco il signore".
Mi sono accorto che la domanda aveva attirato l'attenzione del giovane inglese, il quale ha volto su di me uno sguardo di vivo interesse. Evidentemente quello che ha visto lo ha soddisfatto perché subito ha deciso di parlare.
"Il conte Scarabelli è morto", ha detto con voce grave.
L'ho fissato per un attimo; era un giovane simpatico. "La vedova vive in via Ghibellina?", ho osservato.
"Ritengo che si chiami così la via". Era un bel giovane inglese, ma anche un tipo curioso. Si chiedeva chi fossi e che cosa volessi, e mi concesse l'onore di farmi capire che, su questi due punti, avevo un aspetto rassicurante. Ma, come si addiceva, esitava a parlare di una signora di sua conoscenza con un perfetto sconosciuto e non aveva l'arte di nascondere tale esitazione. Mi è parso subito singolare che, sebbene egli mi considerasse un perfetto sconosciuto, io non contraccambiassi quel sentimento. Forse lo avevo già visto prima, o forse ero rimasto colpito dalla sua faccia giovane e gradevole - ad ogni modo mi sono sentito, come dicono qui, in sintonia con lui. Se l'ho già incontrato, non ricordo l'occasione, e neppure, a quanto pare, se la ricorda lui. Ne concludo che si tratti soltanto di quelle emozioni che provo da tre giorni a questa parte. È stata quell'emozione a farmi comportare come se lo conoscessi da tempo.
"Conoscete la contessa Salvi?" ho chiesto.
Mi ha guardato per un po', quindi, senza risentirsi della libertà della mia domanda, ha detto: "La contessa Scarabelli, volete dire?".
"Sì, è la figlia".
"La figlia è una bambina".
"Sarà grande ormai. Deve avere - lasciatemi pensare circa trent'anni".
"Di chi state parlando?". Il mio giovane inglese cominciava a sorridere.
"Mi riferivo alla figlia", ho detto consapevole del suo sorriso. "Ma pensavo alla madre".
"Alla madre?".
"A una persona che conoscevo ventisette anni fa - la donna più affascinante che abbia mai incontrato. Era la contessa Salvi - abitava in una bellissima casa antica in via Ghibellina".
"Una bellissima casa antica!", ha ripetuto il mio giovane inglese.
"Aveva una bambina, e la bimba era biondissima come la madre, e madre e figlia avevano lo stesso nome: Bianca". Mi sono fermato per guardare il mio compagno che è arrossito lievemente. "Bianca Salvi era la donna più affascinante del mondo". È arrossito un po' di più, e io gli ho posto una mano sulla spalla. "Lo sapete perché vi racconto tutto questo? Perché mi ricordate quello che ero io quando la conobbi - quando l'amavo". Il mio povero giovanotto inglese mi ha fissato con una specie di sguardo imbarazzato e affascinato, ed io ho proseguito: "Ecco perché vi racconto tutto questo, ma voi la riterrete una strana ragione. Mi rammentate un me stesso più giovane. Non risentitevi - ero un giovanotto affascinante. Così pensava la contessa Salvi. La figlia pensa le stesse cose di voi".
[...]
( Henry James , Il diario di un uomo di cinquant'anni, 1879 )