Her, che ora e sempre mi rifiuterò di chiamare con la traduzione che gli hanno dato in italiano, è il nuovo film di Spike Jonze che si basa su un’idea molto originale. In un imminente futuro, i dispositivi digitali funzionano tramite controllo vocale, una specie di Siri intelligente. Ma c’è di più, il nuovo OS, nel film si chiama proprio così, è dotato di autocoscienza, in grado di connettersi con tutto quello che riguarda il suo possessore, mail, contatti, archivi, hard disk, eccetera, e con gli altri OS. Una distopia vera e propria, in cui il fantastico Joaquin Phoenix con tanto di occhialoni da hipster e baffo da John Holmes, che di lavoro fa lo scrittore di lettere su commissione, una delle possibili declinazioni in futuro del mestiere di scrittore, in preda a una fortissima crisi sentimentale decide di dotarsi del nuovo OS, affidargli voce femminile e, visto che Samantha (così il suo OS decide di chiamarsi) si evolve e matura la propria autocoscienza, trova facile innamorarcisi. La terrificante distopia è completa nel momento in cui ci rendiamo conto che l’unico legame tra l’uomo e il suo nuovo amore è la voce. Samantha, orrendamente doppiata da Micaela Ramazzotti, sveglia il protagonista, lo chiama a tutte le ore, gli controlla la posta e i contatti, gli archivia il materiale, arriva a sapere tutto di lui. E in questa Los Angeles con una dominante rossa, colori accesi e forme stravaganti, si svolge l’integrazione più perversa tra l’uomo e la macchina, che macchina non è.
Nell’era del cloud, dei big data e della mobilità, l’intelligenza artificiale come la immaginavamo ai tempi di HAL 9000 è cambiata, non ha più una struttura fisica, non ha corporeità, è liquida. Samantha non ha un corpo, ma questo non ostacola la nascita dell’amore con Theodore-Joaquin. Anzi, è un vantaggio. Lei è là, sempre, a qualsiasi ora, pronta ad accogliere l’amato (anche lei si è innamorata) e a rispondere a tutte le sue domande. Ma tutto avviene tramite la parola, che è la prima complice dell’amore nascente e la prima nemica del rapporto duraturo. Robert Louis Stevenson, ne ‘Lo strano caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde’ fa dire a Utterson: “Porre una domanda è come mettere in moto una pietra: te ne stai tranquillo e beato sulla sommità di un colle e la pietra comincia a rotolare trascinando nella corsa altri detriti, e tutto a un tratto un buon vecchietto, l’ultima persona al mondo a cui avresti pensato, si busca un colpo sulla zucca mentre vanga il suo orticello e così la famiglia è costretta a cambiar nome. Nossignore, me ne sono fatto una norma di vita: più una faccenda sa di bruciato e meno faccio domande“.
Quale faccenda sa più di bruciato di una storia d’amore? Le parole vanno pesate, soppesate, tarate e impacchettate. Ogni parola è un macigno, non una semplice pietra. Il rischio non è la semplice caduta massi, è la frana del Vajont . In quel marasma di domande e risposte, considerazioni e racconti, inferimenti e sproloqui che accompagnano tutto il film, visivamente molto affascinante, emerge la sottile banalità di cui si traveste, uno fra tanti, Fabio Volo per vendere libri.
Gli spericolati vaniloqui pseudoironici di Sex and The City devono aver fatto da apripista a Jonze per il racconto dell’universo sentimentale da feuilleton ottocentesco in salsa postmoderna. Il risultato è identico: una marea di banalità così affilate da far sanguinare le orecchie. Ma se uno spunto positivo si può trarre da questo film, è quello che il buon Stevenson ci ha aiutato a puntualizzare: il vero tesoro è il silenzio, il non detto. Le note non suonate, diceva (anche) Miles Davis, sono più importanti delle note suonate. Certo, il rischio è quello di ritrovarsi circondati dal silenzio, un silenzio che può condurre al freddo dell’immobilità se siamo costretti a ricevere impulsi esteriori. Ma, per quanto mi riguarda, il rischio vale la candela. Consigliatissimo a chi soffre di horror vacui.
@catalanog tramite @ilrecenzore