Aspettavo con grande curiosità l’uscita di “Hereafter”, ultima fatica di Nonno Clint. Dopo la delusione di “Invictus” speravo in un poderoso rilancio della sua filmografia, che prima del film sulla nazionale sudafricana di rugby aveva inanellato una lunga serie di capolavori. “Hereafter”, presentato in anteprima allo scorso Torino Film Festival, e da qualche giorno nelle sale italiane (sebbene seppellito e travolto dall’Effetto Zalone), è solo in parte il film che speravo di vedere. Se “Invictus” poteva rappresentare sotto alcuni aspetti un film spurio all’interno del corpus di opere di Eastwood (così come il suo immediato precedente “Gran Torino” ne rappresentava, di contro, la sintesi più compiuta e perfetta), “Hereafter” costituisce un importante ritorno agli elementi tematici e alle scelte poetiche che hanno fatto grande il cinema del Cavaliere Pallido. Giona A. Nazzaro ha magnificamente sintetizzato in un articolo a cui vi rimando i (tanti) punti di contatto tra “Hereafter” e i pezzi più importanti del cinema di Clint Eastwood. "Hereafter" è in sintesi un altro tassello, non trascurabile, del tanto cinema eastwoodiano della perdita e del lutto. Ormai da decenni Eastwood nel suo cinema conduce una personale opera di smantellamento delle false mitologie su cui si è fondato il cinema (e più ampiamente il “sogno”) americano. Tuttavia, cresciuto con gli occhi affondati dentro l’età dell’oro del cinema statunitense, l’età di Hawks, Ford e Huston, Eastwood ha da sempre sentito la necessità di riallacciare il suo cinema alle radici di celluloide del suo Grande Paese. Un esempio emblematico di questa volontà è quel “Cacciatore Bianco, Cuore Nero”, mitologica iperbole romanzata di una iperbole vivente come John Huston, cacciatore di elefanti sul set della “Regina D’africa”: è Eastwood stesso che in quel film incarna Huston, in una incredibile idea di metempsicosi che solo il Cinema poteva partorire. “Hereafter” procede esattamente nella stessa direzione, nel tentativo/volontà (dono/maledizione?) di entrare in contatto con i propri “morti”. Ed alla bella età di 81 anni è forse comprensibile che una scelta del genere possa manifestarsi con una maggiore urgenza ed esigenza di onestà intellettuale. Nel filo rosso Huston/Eastwood può essere interessante collegare il discorso con un altro grande (probabilmente con il più grande in assoluto) film sui “morti” che mai sia stato girato: “The Dead”, da Gente di Dublino di Joyce. Ancora un parallelismo importante: Joyce/Huston, Dickens/Eastwood. Per il cittadino del mondo Huston il modello dell’irlandese che ha rivoluzionato la letteratura moderna. Per il più americano dei registi americani in attività, il riferimento è Dickens, un inglese, un umanista della Vecchia Europa. I paralleli tra i due film, purtroppo, finiscono qui. Esattamente dove cominciano le doverose, ineludibili menzioni circa le dolenti note relative all’ultimo lavoro Eastwoodiano. Se “The Dead” trovava la sua dignità di sublime capolavoro nelle enormi virtù di sceneggiatura, nella sua compostezza stilistica e in calibratissime scelte di scrittura, “Hereafter” denuncia più di un problema proprio in parecchie scelte narrative. Il primo problema coincide con la sensazione che la sceneggiatura di Peter Morgan in alcuni frangenti si spinga leggermente oltre il “rappresentabile”, superando quella sottile linea che separa la genuina commozione ed il forte coinvolgimento emotivo (elementi cardine di tutto il grande cinema di nonno Clint) dall’eccessivo, insistito utilizzo di situazioni dolorose “estreme”, non del tutto giustificate dalle esigenze narrative, per strappare lacrime un po’ troppo facili allo spettatore. Il secondo problema sta in una generale convenzionalità di tante scelte narrative, prevedibili e scontate quasi dall’inizio alla fine. Il terzo, e per quanto mi riguarda il più doloroso, sta, fatta salva la magnifica sequenza di apertura, in un certo grigiore registico, del tutto incapace di portare il livello della regia verso vette assolute come quelle toccate con film come “Gran Torino”, “Million Dollar Baby” o anche “Changeling”. A tutto questo aggiungiamo il fatto che, a mio parere, il cast del film denuncia più di una carenza. Matt Damon è attore che svolge egregiamente il compito di comprimario all’interno di compagnie di interpreti ben strutturate e ricche di talenti (si pensi agli “Ocean’s”), ma che non è in grado di reggere da solo il peso di un intero film (per restare su Soderbergh, “The Informant”). Molti limiti, quindi. Ma anche, alla base, le consuete doti di coerenza e sincerità cristallina che sempre contraddistinguono lo sguardo eastwoodiano. Valori aggiunti non di poco conto, essenziali per salvare un film come “Hereafter” dalla completa disfatta.
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