Tedesco di origini, svizzero di adozione, orientaleggiante di ispirazione. Hermann Hesse (1877 – 1962) è ancora oggi uno degli scrittori di lingua tedesca del XX secolo più letti, assieme a Thomas Mann e Stefan Sweig. Vincitore del Nobel per la Letteratura nel 1946, fu narratore, poeta e pittore.
Cresciuto tra la Germania e l’India, in una famiglia di missionari pietisti (una forma di cristianesimo protestante che vede la religiosità come un’esperienza interiore e strettamente individuale), ha intrapreso per volontà dei genitori gli studi teologici, ma li ha presto abbandonati per cercare la sua strada. Passando per lavori saltuari, come il meccanico o il libraio, ha approfondito sempre di più l’amore per la scrittura. Dalle liriche tardo-romantiche alle prose sugli umori decadenti, si è cimentato nella critica letteraria e nella stesura di romanzi e raccolte di poesie.
Il successo è arrivato nel 1904 con Peter Camenzind, un romanzo ambientato ai margini della rivoluzione industriale, dove traspare la volontà di raccontare con spirito realistico la vita provinciale della borghesia del tempo.
La Prima Guerra Mondiale portò lo scrittore ad analizzare con cinismo la profonda crisi della società civile occidentale, e a distaccarsi dai destini della Germania di primo Novecento e con essa dalla politica in generale. La guerra rappresentò un travaglio artistico molto difficile, che lo portò in contatto con la psicanalisi junghiana, accentuando così il suo interesse per l’analisi del profondo.
Hesse sosteneva le teorie della filosofia esistenzialista, secondo le quali l’artista non deve essere influenzato dalle ideologie, ma concentrarsi solamente sull’arte, perché non può in alcun modo cambiare il destino della società. La motivazione con cui gli venne conferito il Nobel riassume in poche righe tutta la sua poetica: «Per la sua scrittura ispirata che nel crescere in audacia e penetrazione esemplifica gli ideali umanitari classici, e per l’alta qualità dello stile».
A partire da Demian (1919) i contenuti e lo stile di Hesse si trasformarono e si arricchirono di nuove simbologie.
Ogni sua opera è intrisa di quell’humus religioso e spirituale che gli veniva dalla tradizione familiare. I suoi personaggi sono alla continua ricerca dell’individualità e della pace interiore, sono costantemente divisi tra unicità e dualità, come il genio folle de Il lupo della steppa (1927) o gli opposti ma complementari protagonisti di Narciso e Boccadoro (1930).
Una delle sue opere più famose rimane però Siddharta (1922), riscoperto negli anni Sessanta dai giovani lettori europei ma soprattutto americani, che ne hanno fatto il manifesto del pacifismo durante la guerra del Vietnam. L’ultimo lavoro, invece, fu Il giuoco delle perle di vetro (1943), una summa della sua personalità narrativa e spirituale, che gli costò ben 12 anni di lavoro.