Nel film di Margy Kinmonth, ritorna in chiava diversa e con le debite differenze artistiche il concetto di Sokurov, che l'Hermitage sia davvero l'Arca Russa, contenitore di due secoli e mezzo di storia convulsa che hanno influenzato i destini del mondo.
Il museo nasce, come già detto per volere della Grande Caterina, che comprò intere collezioni, anche in tempo di guerra, per dimostrare che la Russia era un'impero ricchissimo e culturalmente all'altezza dei regni europei. Tutti i Romanov apportarono importanti contributi al museo, in settori che a loro interessavano o anche quando a regnare c'era uno zar del tutto disinteressato all'arte.
L'Hermitage è scampato a un'incedio a fine Ottocento, alla Prima Guerra Mondiale, alla Rivoluzione d'Ottobre (fu nazionalizzato cinque giorni dopo il colpo di stato) e soprattutto alla furia nazista della Seconda Guerra Mondiale. Paradossalmente i nemici più insidiosi vennero dall'interno, soprattutto da Stalin che vendette molte opere importantissime per finanziare la crescita industriale e inviò molti membri del personale nei gulag perché si opponevano alle vendite o per le loro origini colte e di derivazione nobiliare.
Le collezioni sterminate del museo vanno dalla scultura classica, all'archeologia russa, dai dipinti, grandi maestri italiani e fiamminghi all'arte contemporanea. Molte collezioni sono state celate per lungo tempo: gli Impressionisti, Matisse, Picasso non riscuotevano l'approvazione di Stalin, le opere ricevute (o meglio prelevate) come compensazione dei danni di guerra dalla Germania furono tenute nascoste fino agli anni '90 per i reclami della nazione saccheggiata.
Hermitage può essere letto solo come un grande spot al museo russo e in fondo non ci sarebbe nulla di male in questo intento, ma a una riflessione più attenta si nota come il film sottolinei il significato politico dell'arte, la sua importanza nello stabilire la magnificenza e il grado di civiltà di un impero e sopratutto, la lungimiranza di uno statista passa sempre dal suo rapporto con l'arte.
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