Hitchcock di Sacha Gervasi è il primo film sul grande regista londinese. Racconta il biennio 1959-1960, segnato dalla crisi matrimoniale con la moglie Alma Reville (storica adattatrice delle sceneggiature dei suoi film) e, soprattutto, dalla difficoltosa realizzazione di Psycho, osteggiato dalle major che ne prevedevano un imbarazzante flop, e invece diventato il suo più grande successo commerciale, nonchè uno dei film più amati e imitati della storia del cinema. Il film orchestra la complessa materia narrativa lungo tre percorsi: il difficile rapporto del regista con sua moglie, le ossessioni tra eros e thanatos dell’artista Hitchcock, e il racconto della realizzazione del suo film più celebre. Purtroppo, Gervasi fallisce su ognuno degli aspetti citati. Le difficoltà coniugali di Alma Reville sono quelle di una qualsiasi donna che si sente trascurata da un marito assente e distratto, e la narrazione non si discosta molto da quello di uno scontato dramma televisivo. L’intento di cogliere l’ambiguità del maestro londinese, la sua fascinazione morbosa per la violenza e le ossessioni sessuofobiche per le sue giovani attrici bionde viene affidato a banali intermezzi onirici in cui il nostro dialoga con il fantasma del personaggio che avrebbe ispirato il Norman Bates di Psycho. In tal modo, la parte forse più interessante per i cinefili e gli amanti di Hitch – il racconto della realizzazione del film- viene privata dell’attesa ricchezza aneddotica che ne avrebbe fatto una pellicola davvero memorabile. Se la preproduzione, con le perplessità della Paramount davanti alla testardaggine di Hitchcock per quel bizzarro soggetto in cui la protagonista muore a metà film e le frecciate sull’ottusaggine delle regole del codice Hays (non si può mostrare una toilette al cinema!) è raccontata con una certa efficacia, la parte sulle riprese del film delude. La realizzazione della scena della doccia è tirata via e non affronta alcuni dubbi dei cinefili (che ruolo avrebbe avuto l’autore dei titoli di testa Saul Bass in questa scena?), il complesso omicidio di Arbogast viene omesso, così come il cammeo del regista con il cappello da cowboy e altre scene famose del cult del 1960. Scarna anche la descrizione del rapporto con lo sceneggiatore Joseph Stefano, con Antony Perkins e gli altri attori maschili. Il film ci mostra invece un regista distratto che sul set ha la testa perennemente altrove, quasi non gliene importasse nulla della pellicola e fosse ossessionato soltanto dal presunto tradimento della moglie con uno scrittorucolo e dai suoi eterni fantasmi.E’ un peccato, perché Antony Hopkins è un Hitchcock credibile, Helen Mirren ha l’intensità adatta ad esprimere la forza di questa donna talentuosa e discreta, e Scarlett Johansson è una Janet Leigh persino più bella e conturbante dell’originale.Ma ahimè, troppa carne al fuoco per un film che vorrebbe essere ritratto introspettivo, grande storia d’amore e al contempo uno spensierato bignami per i cinefili incalliti.
Hitchcock di Sacha Gervasi è il primo film sul grande regista londinese. Racconta il biennio 1959-1960, segnato dalla crisi matrimoniale con la moglie Alma Reville (storica adattatrice delle sceneggiature dei suoi film) e, soprattutto, dalla difficoltosa realizzazione di Psycho, osteggiato dalle major che ne prevedevano un imbarazzante flop, e invece diventato il suo più grande successo commerciale, nonchè uno dei film più amati e imitati della storia del cinema. Il film orchestra la complessa materia narrativa lungo tre percorsi: il difficile rapporto del regista con sua moglie, le ossessioni tra eros e thanatos dell’artista Hitchcock, e il racconto della realizzazione del suo film più celebre. Purtroppo, Gervasi fallisce su ognuno degli aspetti citati. Le difficoltà coniugali di Alma Reville sono quelle di una qualsiasi donna che si sente trascurata da un marito assente e distratto, e la narrazione non si discosta molto da quello di uno scontato dramma televisivo. L’intento di cogliere l’ambiguità del maestro londinese, la sua fascinazione morbosa per la violenza e le ossessioni sessuofobiche per le sue giovani attrici bionde viene affidato a banali intermezzi onirici in cui il nostro dialoga con il fantasma del personaggio che avrebbe ispirato il Norman Bates di Psycho. In tal modo, la parte forse più interessante per i cinefili e gli amanti di Hitch – il racconto della realizzazione del film- viene privata dell’attesa ricchezza aneddotica che ne avrebbe fatto una pellicola davvero memorabile. Se la preproduzione, con le perplessità della Paramount davanti alla testardaggine di Hitchcock per quel bizzarro soggetto in cui la protagonista muore a metà film e le frecciate sull’ottusaggine delle regole del codice Hays (non si può mostrare una toilette al cinema!) è raccontata con una certa efficacia, la parte sulle riprese del film delude. La realizzazione della scena della doccia è tirata via e non affronta alcuni dubbi dei cinefili (che ruolo avrebbe avuto l’autore dei titoli di testa Saul Bass in questa scena?), il complesso omicidio di Arbogast viene omesso, così come il cammeo del regista con il cappello da cowboy e altre scene famose del cult del 1960. Scarna anche la descrizione del rapporto con lo sceneggiatore Joseph Stefano, con Antony Perkins e gli altri attori maschili. Il film ci mostra invece un regista distratto che sul set ha la testa perennemente altrove, quasi non gliene importasse nulla della pellicola e fosse ossessionato soltanto dal presunto tradimento della moglie con uno scrittorucolo e dai suoi eterni fantasmi.E’ un peccato, perché Antony Hopkins è un Hitchcock credibile, Helen Mirren ha l’intensità adatta ad esprimere la forza di questa donna talentuosa e discreta, e Scarlett Johansson è una Janet Leigh persino più bella e conturbante dell’originale.Ma ahimè, troppa carne al fuoco per un film che vorrebbe essere ritratto introspettivo, grande storia d’amore e al contempo uno spensierato bignami per i cinefili incalliti.
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