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Sacha Gervasi dirige allora il biopic numero uno (l'altro gli è temporalmente successivo), incentrato sulle vicende che portarono Hitchcock a lavorare all'adattamento cinematografico di "Psycho" avvenuto nel momento più difficile della sua carriera: quando "Intrigo Internazionale" usciva nei cinema americani riscuotendo successo di pubblico ma non di critica e lui veniva messo in discussione e identificato come un regista al tramonto con vena d'originalità in esaurimento.
Gervasi compie un approfondimento contemporaneamente minuzioso e cauto sulla persona di Alfred Hitchcock: lo descrive da vicino ma con distacco e ne affronta le pareti più superficiali prima, per avvicinarsi con moderazione a quelle più profonde poi. Ci scontriamo perciò con due tipi di Hitchcock assai diversi: quello visto dall'esterno e presente sul set e quello privato, impegnato sentimentalmente nel rapporto caloroso e difficoltoso con la moglie, e preziosa collaboratrice, Alma Reville (senza di lei non avremmo lo “Psycho” che conosciamo). In "Hitchcock" (questo il titolo del film) difatti viene evidenziato lucidamente quanto il regista soffrisse di un vittimismo cronico, non solo nei confronti di Hollywood, irriconoscente dei suoi successi e in continuo astio coi suoi progetti, ma anche con le attrici che lui stesso, accuratamente, sceglieva per le storie che voleva raccontare, e dalle quali in cambio pretendeva un tipo di riconoscenza comparabile solo a quella spirituale.
Un attaccamento morboso era l'approccio tra lui e le donne: le scrutava, le spiava, percependole sempre figura singolare e imperscrutabile, impossibili da comprendere secondo il suo personal pensiero, esseri traditrici e irriconoscenti. Eppure la mossa migliore della pellicola di Gervasi avviene proprio su questo senso: rappresentando la crisi matrimoniale detonata durante le riprese di quello che sarebbe stato il suo più grande (e sofferto) successo in carriera e risolvendola a sorpresa con due scene toccanti in cui la bravissima Helen Mirren e il magistrale Anthony Hopkins danno il meglio di loro strappando una lacrima, o forse di più, agli spettatori.
Non c'è dubbio che "Hitchcock" funzioni, e che sappia farlo soprattutto per merito della straordinaria eccellenza dei due attori sopra citati. L'aderenza al personaggio da parte di Hopkins è straordinaria, le movenze, ma soprattutto il tono di voce basso e profondo contornato da quell'accento peculiare mettono i brividi. Gervasi non vuole compiere un opera memorabile (forse il materiale preso dal saggio di Stephen Rebello "Come Hitchcock ha realizzato Psycho" da cui il film è tratto non è abbastanza), si accontenta perciò di svelare alcune chicche (neppure troppo inedite), di giocare con un personaggio che persino nel suo intimo amava curiosare (e immaginare) i comportamenti di chi lo circondava e amava ancor di più spaventare, programmando apparizioni improvvise o scherzi inaspettati sul set. Ciò nonostante però la pellicola riesce a mettere in piedi un paio di sequenze memorabili, su tutte quella di Hitchcock fuori dalla sala cinematografica durante l’anteprima di "Psycho" mentre mima la famosissima colonna sonora della doccia in cui la povera Janet Leigh (interpretata da Scarlett Johansson) viene pugnalata ripetutamente da Norman Bates.
Insomma, seppur in forte forma di tributo, risentir le note musicali e riveder le fattezze di chi della suspance ha fatto la storia è sempre un piacere notevolissimo, pertanto, noi, a questo "Hitchcock" ce lo teniamo ben stretto. In tutti i sensi.
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