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Ho immaginato un cerchio

Creato il 08 ottobre 2013 da Viadellebelledonne
Angelo Morbelli

Angelo Morbelli

Tutte le poesie che potremmo scrivere,

si radunano qui in questi libri bianchi

fatti di pergamena, morbida carta indiana,

sugli scaffali del negozio all’angolo di Francis Street.

Ma poi una raffica di vento apre la porta,

il campanello suona, e i nostri pensieri fluttuano

fuori per risalire oltre le botteghe antiquarie,

il Tivoli Theatre col cuore pulsante

per le prove, il cimitero dei sofà di Oxfam

e l’uomo da Coombe

che passa nel fragore di cavallo e carretto –

le nostre poesie mai scritte prendono vita,

svolazzando sulle ali dei gabbiani,

sbirciano nelle gabbie della Marsh’s library,

cantano col coro di San Patrizio,

giacciono a San Werburgh

con Edward Fitzgerald e Major Sirr.

Non c’è fine ai luoghi in cui vanno le nostre poesie–

ovunque per essere libere, non essere rinchiuse

in questi libri fini e belli

affamati di uno scarabocchio,

un sogno, la corsa di una parola a precipizio.

Negozio di taccuini, Enda Wyley da “Risvegliarsi a questo” – Kolibris 2010, Traduzione dall’inglese di Chiara De Luca

 §

Ho immaginato un cerchio. E al suo interno, nel suo centro, fulcro sensibile e cuore pulsante, ho visto la Poesia. Nelle innumerevoli forme in cui si esprime. Ho poi immaginato il cerchio e la sua Poesia inglobati in un quadrato, i suoi lati uguali perfettamente costruiti intorno alla perfezione. E ho pensato al mondo intero, globo racchiuso nella libera espressione ed interpretazione delle Voci, autentiche linee rette di contenimento e traduzione del pensiero. Quando il pensiero necessita d’essere contenuto, quando  le idee più belle, alte, uniche, autentiche ed originali formano un substrato a sé, allora le forme precise di una sagoma geometrica aiutano ad identificarle in un nucleo, una dimora di speciale consistenza e bellezza. Sul lato superiore del quadrato ho immaginato un chiodo che tenesse ferme tra loro le due cose, e infine un fiore che le ingentilisse e portasse a compimento l’idea di una Natura non sempre matrigna, ma anche e soprattutto Madre che trasforma i nostri bisogni e la loro soddisfazione in un coro armonico, dissestato qua e là dai tentativi maldestri delle nostre umane miserie. Sebbene non vi sia sempre armonia perfetta, mi piace pensare che le Voci di quel coro che si innalza siano ugualmente preziose e decisive per il progredire della Poesia, una vena aurea di ispirazione salvifica e rigenerante. Ora vorrei mostrarvi ciò che ho visto all’interno del cerchio, quali parole sono volate dentro e fuori dal mondo per elevarsi e formare con la Natura una nebulosa che lo protegge e lo spinge oltre, dove solo il cielo è il limite e la morte non esiste ma è solo un soffio, una pausa. Solo una virgola (“E morte più non sarà, morte tu morrai” – John Donne). Ora vorrei mostrarvi solo qualcuna delle virgole che più mi hanno resa immobile ad aspettare in quella pausa. Senza tempo presente, passato e futuro.

§

Il giardino di Galileo

Radissimi astri

sul campo di zucche,

le enormi teste di cavoli

accennanti al più lieve passaggio

e il liquame verdastro di alcune creature:

più sotto rintanano bulbi,

all’esterno torti e straziati sotto il chiarore dei raggi,

sembra di camminare sui gusci

del cammino a ritroso dei mari,

così una sirena s’attorciglia,

confonde in quel viluppo di secchi di gamberi cavi

mezzo ritta sulle elitre,

un gran pesce luccicante

con festuche appiccicose sul corpo:

Urano s’appoggia a una serie indiana di pali,

goccia un liquido denso, d’opale,

beve il latte che mortifica i tessuti,

l’erba della dimenticanza ed il suo fiore:

“Quando le trame non sono ancora

ed i legami vulnerabili,

un dio ti siede accanto e

osserva il suono d’uomini che camminano nel cielo,

dal varco di luce della sua bocca

nel mio orecchio fluisce come olio”.

Tutt’oggi una cosa

ha sostato in bilico della casa

col buio è scesa nelle siepi

infinita ed eterna,

urtando vasi col muso

facendo un vento di semi, e

ha ucciso un cespuglio, guardandolo:

dormono le streghe sulla stufa

fumando la pipa, dai rami pendono

frutta bollita mandorle amare e

oltre il riparo dei pruni

si spargono uccelli sul pane di ieri,

ed è tutto un leccare e lappare

di bestia all’abbeverata,

cuoce piano un bambino nel forno:

“Discesi allora nel tempio

e aprii sulle stelle

il tetto scorrevole:

basse sull’orizzonte

nel palustrìo,

mentre varcato il recinto e frante le uova

i galli schiamavano e schiamavano

per il Ferro al centro della Terra:

parlammo in un denso fumo.”

Insonne straniero,

senza memoria e

oppresso dal ricordo

resto cieco su un gesto abituale

incoronato d’alloro.

Da “La natura delle cose” di Alessandro Ceni, Editoriale Jaca Book spa, Milano, novembre 1991

*

Parola di tenebra

Lettere dell’alfabeto,

polvere mortale –

ti ridono dietro.

Meglio perciò legger cifre

mentre sussurri a te stesso

sui muri.

Che mai conterai?

Le lacrime? Gi anni?

Gli occhi dei morti

che spargono luce?

Non è qui parola la morte

Da “Dunkelwort” di Federico Federici – UHU Buecher, marzo 2013 – Traduzione dal tedesco di Federico Federici

*

Tempo ingrato

Il metereologo prevede tempo ingrato.

Ma intende grigio, il mio colore di cielo

preferito: il peltro raggiante e delicato,

violetto sfrangiato delle nubi di pioggia del Galles,

in trapunte di palazzi e mucchi di colline

basse sui campi, a tracciare ombre azzurre.

E con ingrato intende pioggia:

il dio liquido, risposta alle preghiere

dei sogni febbrili dei contadini; quello

che gira le chiavi nel suolo, fa scattare interruttori,

maestro delle resurrezioni, che risveglia i semi,

dal sonno vergine, e fiocchi minuscoli,

grani lievissimi e punti quasi invisibili.

Il tempo ingrato riveste le pecore di grasso.

Il tempo ingrato gonfia grano, orzo e avena.

Le nubi si abbassano con il loro patrimonio,

i campi traboccano di lingotti, e ogni fosso

è un portafogli aperto e goccia argento.

Lasciate che corra le strade il tempo ingrato,

ragazza folle a scuotere i lunghi capelli.

Lasciate che passi la mano sulle colline

e ne sani l’arido sonno. Il tempo ingrato

è nostro per diritto di nascita: cresciamo

al suono del picchiettìo sui tetti,

al canto goglottante delle grondaie.

Imparammo ad accendere le luci in cucina

nelle mattine d’estate, a portare ombrelli

ovunque, come una seconda pelle.

I frigoriferi sono stipati di burro,

crema e formaggio. Dai rubinetti il tempo ingrato

scorre in ruscelli caldi e freddi

nell’aiola delle rose dissemina capolavori.

Anna Wigley da Risveglio d’inverno, Kolibris 2010 – Traduzione dall’inglese di Chiara De Luca

*

E ne sarebbe stata affetta

Era l’odore della terra in fiore:

la sua splendente bellezza permaneva

le faceva amare cose inermi

Si sentiva tutta riarsa

- e con suo stesso orrore -

fino al midollo

di una sua magra esistenza selvatica.

Ogni cosa appariva troppo fredda,

troppo ampia – e desolata.

Ora si aspetta tutto dall’uomo

come una mattazione,

l’abisso oltre il giardino.

E ne sarebbe stata affetta,

da quei vivi – mutilati e imperfetti-

dai cumuli di piccole celle,

da una minima contaminazione dell’aria.

(era il lieve velo della polvere,

dei fiori che andavano essiccandosi…)

V.D. Balbinot da “Febbre Lessicale”, Ilmiolibro.it 2011



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