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Ho sempre avuto la pretesa di essere nel giusto

Creato il 18 novembre 2012 da Tabulerase

Ho sempre avuto la pretesa di essere nel giustoIn inverno, a 17 anni pensavo fosse utile occupare un liceo per impedire che una pseudo riforma iniqua e mal concepita rendesse l’università italiana elitaria e  scardinasse il principio del libero e indiscriminato accesso all’istruzione di grado tre. La mia prof di Lettere, che aveva vissuto le proteste degli anni 70, un martedì qualunque di quel radioso Gennaio mi chiese perché. Raffazzonai un paio di concetti che mi apparivano acuti e giusti ma che probabilmente avevano pochissimo senso. Nei suoi occhi, della professoressa intendo, se avessi avuto la capacità di capire gli occhi al tempo, avrei dovuto leggere la rabbia per la pochezza delle mie argomentazioni e la frustrazione per la sua inadeguatezza a spiegarci il mondo che ci stava intorno. I concetti di cui sopra, li avevo assemblati fidandomi di qualche gran penna della sinistra post sessantottina che negli studenti del 1990 vedeva finalmente una generazione che ritornava a combattere dopo il decennio del riflusso o forse più banalmente ciò che non aveva mai smesso di essere dentro: un teenager che cazzeggia e si diverte giocando alla rivoluzione.

In primavera, a 22 anni pensavo fosse utile impegnare il mio tempo nella grande battaglia che avrebbe portato finalmente al potere la Sinistra vera, pura, giusta, colta, superiore e salvifica (per l’Italia). La vittoria era a portata di mano, un gruppo di coraggiosi e incorruttibili magistrati aveva finalmente portato a termine il lavoro sporco che una nazione intera in 40 anni -o perlomeno negli ultimi 20- non era stata in grado di fare: ripulire la città della politica dai cumuli di putrescente immondizia che ne adornava il paesaggio. E in fondo non si pensava che tra quei 50 milioni di concittadini che inneggiavano ai pool anticorruzione c’era chi aveva elargito una mazzetta al primario pur di scavallare la chilometrica lista d’attesa per una visita specialistica all’USL, il vigile urbano che non vedeva una veranda di troppo, il professore che assicurava i 60/60 alla figlia dell’amico di sua cugina, il barbiere che puntualmente non ti rilasciava ricevuta, il sindacalista che andava a cena con il suo imprenditore e che riusciva ad indicare la via più breve ai curriculum più giusti. No, proprio non ti veniva in mente che in fondo ci si trovava di fronte alla più incredibile evidenza empirica di teoria delle broken windows mai manifestatasi, dove politica e grande finanza avevano da sempre giocato il ruolo del palazzo brutto  e fatiscente e i cittadini a loro volta si erano adeguati al ruolo del passante che non si esime dal tirare un sasso e spaccare un’ennesima finestra, perché, in fondo, un orgasmo di 15 secondi non si nega a nessuno.

Era Estate a 29 anni quando avevo deciso che l’unica risposta la trovi nella purezza e nel disincanto, e reputi ineluttabilmente  che tutto l’ardore che spendi nella battaglia è fiato sprecato, che non c’è redenzione per una Nazione di bruti prevaricatori che trovano la via all’affermazione sociale solo umiliando la coscienza sociale  del paese, solo percorrendo i percorsi rapidi e performanti della furbizia e dell’immediato tornaconto. Ma no, mi dicevo, non mi avrete, non baratterò la necessità di spendere le mie armi, le mie forze il mio ardore per combattere il tiranno alle porte con il compromesso di accettare un leader buono eventualmente a prestare la faccia ad una soap e poc’altro. Ero puro e alto, sul mio aventino dorato e luccicante di sarcasmo e superbia quando tra Rutelli e l’eterno Silvio scelsi una personalissima retrospettiva di Truffault, preferendo la pulizia della mia coscienza di sinistra e l’autocelebrazione da cinefilo d’essai e chiusi gli occhi davanti alla prospettiva di tenermi per cinque anni il satrapo di Arcore (ok poi il tempo e Rutelli mi avrebbero dato ragione ma questa è un’altra storia).

Ed infine è arrivato l’autunno. L’autunno di un paese che si avvita nella propria accidia, irrimediabilmente convinto dell’impossibilità di ribaltare la spirale di triste decadenza in cui si crogiola lamentoso. Troppo compromesso per pensare di risanare la mala pianta , troppo debole per estirparla e provare a credere in una nuova semina.  Come un corpo che muore di una malattia sconosciuta e che si affida, per volere dei parenti ricchi ai migliori medici al mondo i quali con innegabile professionalità rendono l’agonia meno dolorosa ma che non hanno le ricette, le medicine e soprattutto la forza di immaginarsi fuori dal mainstream, la capacità di guardare oltre l’orizzonte della convenzione, del già sperimentato e dell’unanime buonsenso.  Ed è per questo che è tempo di fuggire dai solidi schemi che nelle nostre stagioni passate ci hanno fatto sognare, che ci hanno illusi, che ci hanno fatto sentire migliori e adesso coccolano la nostra ragionevolezza da status quo. E’ tempo per visioni inusuali, è tempo per donne e uomini che non si accontentano di sapere che dopo l’autunno c’è l’inverno ma piuttosto agiscano per edificare, ora, subito e senza indugio un’inattesa primavera.


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