Stanotte ho vissuto un momento di ineffabile perfezione, di quelli che durano solo per l’arco di tempo necessario a farti fermare un istante e sorridere e poi svaniscono, lasciandoti solo quel sorriso ed una vaga sensazione di malinconia perché quel palpito di esistenza non tornerà più e per riprovare quella sensazione dovrai attingere alla scatole degli istanti preziosi della vita che è sempre dannatamente troppo vuota.
Stavo per rientrare a casa dopo la solita bella serata con gli amici, trascorsa a parlare di tutto e di niente, a ballare spensieratamente come Adele, a ridere di pancia, ed uscendo da Al Bacaro mi stavo incamminando verso Torre San Giovanni, ma qualcosa mi ha trattenuta, forse il richiamo del momento perfetto. Così mi sono voltata ed ho percorso il Liston, ascoltando le risate ed il brusio festoso degli ultimi tiratardi che tra un prosecco e l’altro si gustavano gli ultimi minuti della nottata seduti ai tavolini dei bar, guardando la piazza come fosse una terrazza sull’infinita bellezza del mondo. Ho indugiato un po’ ammirando le merlature del Municipio, il campanile storto, il Cavallo imponente, e tutti quei piccoli e grandi dettagli che osservo distrattamente da anni, da quando ho iniziato a calcare queste strade appena ragazzina e di cui non avevo mai colto l’intrinseca magia.
Mentre attraversavo la Galleria dei Portici iniziavo a sentire il sorriso farsi spazio sul mio volto e la beatitudine possedermi pian piano e crescere, quasi subdolamente, un volta giunta in via Spalti così decadente, così trasandata eppure così perfetta, con le facciate dei suoi edifici slavate dal tempo, con la sua strada larga lo spazio di un carro di buoi, con la sua trascuratezza che mi dice “sì, in tutta questa bellezza ci sono anch’io e anche se la gente non vede che l’asfalto spaccato e gli intonaci fatiscenti, io so che tu vedi il bello del declino che c’è in me”.
Ma la vera sensazione di estasi è arrivata solo quando ho raggiunto il ponte di via Camucina, quella stretta via più simile ad un budello buio che ad una strada. Si può percorrere solo a piedi mentre a sinistra scorre il canale che un tempo costeggiava l’Oratorio, luogo dei ricordi malinconici di molti vecchi che lì andavano al cinematografo, e a destra si assiepano una serie di casette un po’ diroccate, di cui una è un vero gioiello per tutti i meravigliosi fiori che ospita in un piccolissimo giardino: camelie rosso carminio e rose e gelsomini rampicanti sulle reti che non mi stanco mai di guardare in fiore ogni primavera da quasi trent’anni. Su quel ponte ho sentito il profumo dei glicini bianchi annodati al parapetto e mi sono avvicinata per annusarli, come faccio ogni volta che passo senza fretta, quando non sono distratta dai pensieri del giorno; ho visto l’acqua ruzzolare nel canale, due gatti guardarmi guardinghi e incuriositi e tre anatre sollazzarsi beate nell’acqua senza curarsi minimamente di me. Quindi ho percorso tutta via Camucina, con il suo pavé sotto i tacchi ed il suo tetto di fronde a nascondere la notte sopra la testa; quando ho raggiunto la fine della via mi sono voltata indietro ed ho finalmente percepito la perfezione del momento e quella felicità latente mi ha travolta come un temporale inatteso; una felicità fatta di profumi, rumori, immagini, in quel quadro dalle proporzioni perfette che è il mondo in una notte di primavera. Ho ricordato che la felicità esiste ed è il sentirsi completi in un luogo. Per la prima volta in trent’anni ho sentito una sincera tenerezza per Portogruaro, come l’avevo provata prima soltanto per la mia Padova, quando, appena venuta al mondo, la percorrevo da sola di notte, dalle piazze al prato.
Amare un luogo è un sentimento forse più forte di quello che si prova nell’amare una persona perché amare un luogo significa aver trovato il proprio posto nel mondo; è raggiungere la consapevolezza che qualsiasi cosa possa accadere, qualsiasi tempesta ci spazzi via, in quel luogo ci si sentirà sempre a casa.
«Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
- Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan.
- Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, – risponde Marco. – ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi aggiunge:
- Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che mi importa.
Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.»
(Italo Calvino, Le città invisibili, 1972)