Di giorno l’instancabile Honey Daniels insegna a ballare hip-hop ai ragazzini neri di un centro ricreativo; di notte, finito il suo turno di cameriera, si esibisce in un club. Notata da un talent scout di Broadway, ottiene una scrittura come ballerina di fila. Potrebbe essere promossa a coreografa, ma preferisce tornare ai ragazzini del quartiere. A vestire i panni della protagonista di questa storia diretta da Bille Woodruff nel 2003 c’era la brava e bella Jessica Alba, che per il suo sequel lascia il testimone alla bella ma non altrettanto talentuosa Katerina Graham. Quest’ultima non eredita a otto anni di distanza il personaggio interpretato nel primo capitolo dall’attrice ispano-americana, ma nel tirato e flebile tentativo di dare comunque una continuità al racconto, si cala nel ruolo di un’adolescente uscita dal riformatorio che frequenta per lavoro la scuola di ballo fondata dalla Daniels. Questo l’unico anello concreto di congiunzione tra due pellicole che, nonostante si alimentino entrambe di un’abbondante dose di melassa sentimentale a buon mercato, sembrano piuttosto distanti dal punto di vista degli esiti.
Orfano di Jessica Alba ma con Woodruff ancora dietro la macchina da presa, Honey 2 trova comunque la via del grande schermo e approda nelle sale nostrane nel primo caldissimo weekend balneare di agosto. Il target resta ovviamente lo stesso, ossia l’adolescenziale e più precisamente quello appassionato di danza, anche se la visione in fin dei conti si prestava ad una platea più matura. In Honey la commistione tra commedia e dance movie dava vita ad un canovaccio narrativo adatto ad una fascia di pubblico più vasta, cosa che purtroppo non riesce in questo annacquato sequel. La narrazione è più piatta e monocorde, sorretta principalmente da continui numeri di danza composti da assolo e coreografie di gruppo piuttosto altalenanti e non sempre riusciti, nei quali provano a farsi spazio a fatica qualche scambio di battute di dialogo e l’immancabile triangolo amoroso tra lei, lui e l’altro. Nel capitolo iniziale, al contrario, si era riusciti a trovare un giusto equilibrio tra parole e passi di danza, lasciando persino campo a un sufficiente sviluppo dei personaggi, come accaduto già in film analoghi tipo A Time for Dancing (2002) di Peter Gilbert e Save the Last Dance (2001) di Thomas Carter. Qui, come negli esempi sopraccitati, all’inseguimento di un sogno (sfondare nel mondo della danza) e al riscatto personale (uscire dal quartiere e vivere dignitosamente lontano dalla dura legge della strada), si unisce anche un pizzico di dramma che alza di un’asticella il livello emotivo e lo spessore del plot. Honey aveva nel proprio dna queste caratteristiche, che ne rendevano la visione piacevole fino al coinvolgente epilogo sulle note di I Believe di Jolanda Adams. Caratteristiche che nell’atto secondo si sciolgono come neve al sole, fino a scomparire definitivamente nell’esile e poco generoso scheletro drammaturgico sul quale si poggia il suo script.
Piuttosto che l’originalità, gli autori del sequel hanno scelto di accodarsi alla sterminata filmografia ‘danceresca’ prodotta nell’ultimo decennio, formata da titoli fotocopia che ricalcano in tutto e per tutto il modello televisivo di American Best Dance Crew: dagli ultimi due episodi di Step Up diretti nel 2008 e nel 2011 da John M. Chu al recentissimo This is Beat (2011) del canadese Robert Edetuyi, passando per il britannico Street Dance 3D (2011) della coppia Max Giwa-Dania Pasquini. Honey 2 si alimenta degli stessi pregi (pochi) e difetti (molti) del filone al quale vuole a tutti i costi appartenere, senza cercare minimamente di crearsi un’identità filmica propria. Preferisce l’azione ai fatti, azzerando totalmente storia e introspezione in modo da proporre al pubblico di turno la stessa minestra riscaldata di scene e situazioni già viste e riviste (l’esibizione al buio con i costumi catarifrangenti e luminosi alla Tron).
Francesco Del Grosso