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Non so cosa spinga un autore a confrontarsi con i temi più classici, a un pregiudizio rapido è difficile distinguere una mancanza di idee e quindi un facile sostegno da un qualche tipo di moda da seguire o da un giusto andarci piano e con i piedi ben piantati per terra. Io spero sempre che sia quest’ultima opzione a motivare chiunque, muovere i primi passi è rischioso e, tanto a Hollywood è facile precipitare in voragini colme di banalità che gli fx non nascondono, tanto nell’universo indipendente si può venire scambiati (eh, lo so, vedo tutto con l’occhio buono e ottimista mentre quello un poco cinico se ne sta sempre chiuso) per filosofi da osteria che in realtà nessuno vuole ascoltare.
Ci sono soggetti che colano da ogni orifizio possibile del cinema horror, chilometri di pellicola, spesso becera e putrescente, si scioglie in pozze maleodoranti che sarebbe buona cosa dimenticare in cantine sepolte, ma è anche vero che certi argomenti e relativi modi per trattarli non perdono mai la loro efficacia, per quanto impolverata possa essere, e si rinnovano, o provano almeno a farlo, di occasione in occasione. Non è bello dire di cosa parla Honeymoon, sarebbe trabocchetto un po’ cattivo anche se involontario, rovinerebbe neanche tanto la sorpresa, perché non si può proprio parlare di sorpresa, bensì la progressiva immersione che Leigh Janiak, al suo esordio, modella con cura magistrale attorno ai due protagonisti, una coppia di sposini in luna di miele in una cabin in the woods magari non straordinaria ma comunque funzionale alle loro esigenze. Lui è il Victor Frankenstein di Penny Dreadful, lei Ygritte di Game ofThrones, entrambi inglesi ma parlano con accento yankee, è strano forse vederli in abiti normali, soprattutto lei, spogliata di armature e grezza parlata si scioglie in una femminilità sbarazzina, e formano una coppia di una naturalezza spesso commovente: nella prima mezz’ora, quando ancora non ci sono misteri a macchiare il post matrimonio, sembrano davvero innamorati, nei piccoli gesti che mutano in scherzi, nelle risate che scoppiano come petardi, nelle chiacchiere sciocche e nelle scene d’amore, mostrate con una grazia che pare impossibile trovare ancora nella volgarità odierna.
Lo show è tutto loro, la storia si sposta raramente al di là delle due stanze in cui vivono e quando lo fa è solo per gettare perfette ombre, piccole ma calcolate al dettaglio, e fortificare uno script semplice, secco, uniforme, una storia già vista e letta in chissà quante occasioni ma che, grazie alla penna della Janiak, aiutata da Phil Graziadei, trova nuove e insperate marce per essere sempre curiosa, per coinvolgere con dialoghi di stupenda quotidianità e personaggi che vivono e pensano e sembrano pulsare da tanto è forte il loro entusiasmo, così energico da trainarli anche quando la situazione si incrina e la paranoia sparge semi velenosi. Ogni gesto nasce da riflessioni appropriate, la logica delle azioni/reazioni è per una volta tanto così coerente da mischiarsi a un realismo sopraffino, non ci sono sbalzi caratteriali per movimentare il ritmo o spezzare uno sviluppo molto quieto, ma sinistro come pochi, l’orrore è infetto e come una malattia si presenta per sintomi ai quali si bada poco, per poi demolire con una manciata di sequenze finali dal taglio cronenberghiano per richiamo viscido e carnoso.
Honeymoon è un film ipnotico e come tale lascia un vuoto malessere e un brutto senso di straniamento, tutto segue una linea tracciata molti anni fa da una storia che a grandi linee conosce chiunque ma un cast brillante e una regia essenziale potenziano una sceneggiatura di dettagli quasi miracolosi. Opera bellissima e che farò fatica a dimenticare.
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