Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice delle fu regia Marina ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi.
Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca
«Nulla è più frustrante, per un lettore appassionato, di trovare un libro che per lui è travolgente, un capolavoro, e scoprire che quasi nessuno lo conosce e che non è facile persuadere gli altri a condividere il piacere che gli dà. Come può essere che un libro che lo colpisce profondamente, che trasforma il suo panorama interiore, rimanga oscuro e, in larga misura, non letto? O che i colleghi, gli amici a cui comunica il suo entusiasmo rimangano scettici o addirittura rispondano in modo negativo?» Scriveva così George Steiner, uno dei massimi critici letterari al mondo, in un articolo sul Corriere della Sera nel 2003 in occasione della riedizione Rizzoli di Horcynus Orca il romanzo di Stefano D’Arrigo. Un romanzo che occupò per oltre vent’anni il suo autore, un’opera incessante di riscrittura per creare una lingua unica, una lingua che s’impara a decodificare soltanto continuando a leggere con ostinazione, amore e dedizione.
Primo Levi definì il capolavoro di D’Arrigo «un libro esuberante, crudele, viscerale e spagnolesco», Horcynus Orca è un’opera-mondo, si potrebbe leggere e rileggere di continuo e scoprire sempre qualcosa di nuovo che ci può aiutare a decodificare il nostro presente. Quattro giorni – tanto dura la fabula – si dilatano sino a riempire mille e trecento pagine, mille e trecento pagine in cui la Sicilia del 1943 diventa la chiave per capire la disgregazione che la Seconda Guerra Mondiale ha portato nell’idea stessa d’umanità.
La letteratura serve proprio a questo, ad aiutarci a comprendere gli altri uomini, lo capiamo bene immergendoci nel viaggio di ritorno di Ndrja Cambrja, il marinaio protagonista di Horcynus Orca. Ndrja torna a casa, è riuscito a sopravvivere alla guerra, torna per riabbracciare il padre, uno dei vecchi pellisquadre, i pescatori che sulla linea dei due mari, tra Scilla e Cariddi, hanno la pelle dura come gli squali.
Cercare di sintetizzare un’opera così monumentale è vano, lo stesso pieghevole che nel 1975 accompagnava la prima edizione sottolineava questa difficoltà:
«Opera di grandioso respiro epico e lirico, Horcynus Orca racchiude in una azione di pochi giorni e in uno spazio compreso tra l’estremità della Calabria e la Sicilia una materia di immenso potenziale mitico e simbolico e insieme di straordinaria evidenza realistica: il ritorno al paese, a Cariddi, nello sfacelo dell’autunno del 1943, di ‘Ndrja Cambrìa, marinaio della fu regia Marina, che percorre a piedi le coste devastate della Calabria e viene trasbordato di notte da Circina Circé, potente e ammaliante figura di femminota, dedita a misteriosi traffici su e giù per lo scill’e cariddi. Riapprodando all’isola, tutto quanto costituiva il suo mondo, a terra e a mare, gli appare stravolto, immeschinito e degradato dalla guerra e dalle conseguenze della guerra. L’apparizione improvvisa dell’Horcynus Orca, dell’Orca che dà la morte, che dà la morte e basta, dell’Orca che è, in una parola, la Morte, segna una svolta narrativa di grande effetto e imprime al romanzo una cadenza fortemente drammatica.[…]
Qualsiasi esemplificazione riassuntiva appare però totalmente inadeguata alla sconfinata architettura dell’opera, che fin dalle battute dell’inizio introduce in una dimensione eccezionale, fuori dagli schemi e dalle abitudini narrative del nostro tempo. Fondendo il presentimento della morte e il sentimento della vita, il romanzo sviluppa, attraverso quarantanove episodi e una serie sterminata di personaggi e figure, di visioni e di sogni, di ricordi, di simboli e di associazioni, di variazioni e riprese, l’immensa tematica di quella continua metamorfosi che è la vita degli uomini e dell’universo. Essa si articola in una stupefacente varietà di registri stilistici e in una altrettanto prodigiosa molteplicità di piani narrativi, volta a volta – e spesso contemporaneamente – onirici e realistici, evocativi e visionari, soggettivi e corali: dall’amore tra Aci e Galatea, vissuto dal figlio, alla scandagliata per la riviera di ‘Ndrja e Masino, dall’iniziazione erotica di ‘Ndrja alle immagini ariose ed epiche dell’agonia dell’orca fino al progressivo emergere e dilagare della corruzione agli occhi di ‘Ndrja (il Maltese dalla dentatura d’oro, la regata, la fine dell’idolo don Luigi Orioles).[…]
Se da un lato può apparire, senza alcun dubbio, una sorta di monstrum nella narrativa contemporanea, dall’altro affonda le sue radici nel sostrato più profondo, più vitale e più ricco della tradizione occidentale, rinnovandola in un testo di smagliante bellezza e di memorabile densità, destinato a occupare, in assoluto, un posto di primo piano nella letteratura del Novecento».
Il romanzo non è diviso in capitoli, è un flusso ininterrotto, come il mare da cui arriva la vita e la morte per i Cariddoti, c’è solo uno stacco tra i vari quadri, costruiti come i cartelli dei vecchi cantastorie. Lo stacco è maggiore solo in tre punti del romanzo per segnare le tre parti in cui si può suddividere il viaggio di Ndrja, che dura quattro giorni, dal quattro all’otto ottobre del 1943, l’anno dell’armistizio italiano. La critica alla violenza del fascismo è una costante, il duce è durato quanto dura una sigaretta se confrontato ai tempi biblici che sono propri dell’Orca, lei il coprotagonista del romanzo che s’identifica con Ndrja perfino nella tragica fine che conclude le vite d’entrambi. Quello che ha scritto Philip Roth a proposito dei dibattiti letterari che spesso appannano inutilmente il rapporto tra lettore e libro vale soprattutto per questo romanzo: “La gente dovrebbe essere lasciata sola a combattere con in libri e riscoprire cosa sono e cosa non sono. Tutto il resto sono chiacchiere. Chiacchiere senza senso”.
Difficile e vano spiegare la sensazione che si prova quando finalmente si penetra dentro D’Arrigo. All’inizio ti ingolfi, sputacchi l’acqua salata che trasuda dalle pagine. Dici: non ce la farò mai. Poi la chiave gira. In un punto imprecisato del romanzo, che cambia per ciascun lettore, improvvisamente il mondo di D’Arrigo si schiude solo per noi. E ci regala personaggi vivissimi: lo spiaggiatore vestito con tutte le divise di tutte le guerre, le femminote, il piccolo Duardo e Ndrìa che cercano confetti e trovvano un “muccusello” morto con lo spadino e la medaglietta della comunione, e ci sono loro, le fere. Le fere sono i delfini per il resto del mondo ma per i Cariddoti sono fere, pesce bestino che malignamente danneggia le reti per pura malvagità. E saranno proprio le fere a scodare l’Orca Orcinusa, l’Orca che dà morte e che decide di insediarsi proprio sul mare dei Cariddoti, già privati dagli inglesi delle loro barche e della loro unica fonte di sussistenza.
La Guerra ha distrutto un mondo, un’idea di mondo che mai più ritornerà:
«E se non era la fine del mondo, era comunque quel finimondo di guerra, ed era per ’Ndrja come se del finimondo che la guerra aveva fatto dell’uomo, lui si rendesse conto solo ora, solo qua, ora, a Cariddi, su questa scarda di mondo che era tutto il mondo per lui».
Per penetrare questo mondo è indispensabile il mirabile lavoro del gelese Marco Trainito, autore de Il Codice D’Arrigo, una vera e propria guida per viaggiare tra le pagine di Horcynus Orca e dell’altro romanzo di D’Arrigo, Cima delle nobildonne.