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Ciononostante L’Apollonide non rientra nella categoria “film-storico” con tutte le possibili implicazioni del caso (tipo denuncia della condizione femminile). Bonello si è impegnato nella ricostruzione degli ambienti (il set è un castello vicino a Parigi) attraverso la lettura di carte e documenti provenienti dagli archivi della polizia, e ha certosinamente edificato un micro-clima che trasuda il profumo raffinato (ma comunque fittizio) della belle époque in cui si manifesta un incessante meccanismo di ostentazione che riguarda gli opprimenti arredamenti e gli altrettanto claustrofobici vestiti delle ragazze, immortalate, tra l’altro, nei riti quotidiani, spensierati e lisergici dove utilizzano e si rapportano con oggetti del tempo. Ma no. Bonello, pur svolgendo questo convincente lavoro sul piano della riproduzione, non pare particolarmente interessato a fornire un ritratto che metta in risalto lo sfruttamento della prostituzione di più di cento anni fa e ragionando in tali termini probabilmente anche il discorso enucleato nel paragrafo sopra riguardante la riproposizione dei mali (in particolare) economici che iniziavano ad affliggere la vita reale, sebbene innegabilmente presenti entrambi, non rappresentano adeguatamente lo spirito della pellicola. A questo punto bisogna tornare all’etichetta identità e chiarire quanto prima un punto: Madeleine, Julie, Samira e tutte le altre abitanti della casa sono riconducibili ad un solo profilo, sono tante e sono una, che è l’identità-puttana, status di cui hanno piena consapevolezza e in cui emerge l’appartenenza alla categoria sottoforma di fratellanza, la vendetta infatti si consuma assumendo i tratti sfregiati della propria sorella. L’esplorazione di Bonello in questo universo si scollega dalla materia e in un procedimento molto ma molto lynchiano diventa, e sono parole dell’autore nato a Nizza, un teatro della mente dove sul palcoscenico gli atti sono incastrati in una routine cristallizzante mentre dietro le quinte si propagano effluvi onirici, “eyeswideshuttiani” (direttamente da De la guerre, 2008), tanto che il sogno, possibile contenitore di tutto, travalica il confine manifestandosi meravigliosamente in un pianto che si relaziona all’Io Prostituta, donna invasa dall’uomo, violata, vista (il tizio che vuole vedere continuamente il loro sesso), telecomandata (la bambola), delegittimata delle lacrime.
E comunque il cinema di Bonello si conferma luogo di teoresi, un’investigazione della settima arte pronta a rimescolare gli assiomi di un film scompaginandone i ruoli (la protettrice Noémie Lvovsky, i clienti Xavier Beauvois e Jacques Nolot sono tutti veri registi), suggerendo l’interscambiabilità tra regista e attore (o forse sottolineando la paternità del primo nei confronti del secondo e navigando quindi nelle stesse acque di Cindy: The Doll Is Mine, 2005), smentendo ogni previsione (memori di Le pornographe [2001] ci si poteva attendere un film saettato da spaccati erotici, invece la pudicizia è il tenore che prevale), spiazzando nelle scelte estetiche (chi si aspettava uno split screen?), delineando in conclusione un cinema maieutico, fecondo sulla lunga distanza, che in L’Apollonide trova una sentenza stringente della sua arte, dedalo identitario di luoghi, di maschere, di Uomini.
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