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Houston, abbiamo un problema

Da Robyp

HOUSTON, ABBIAMO UN PROBLEMA

29 agosto 1976 - Elvis lascia Houston dopo essersi esibito al Summit.

Il nastro con la registrazione del concerto di Elvis al Summit di Houston, 29 agosto 1976, ha continuato a farsi desiderare per la bellezza di trentasette anni, quasi preferisse non farsi notare a causa delle voci che circolavano sul suo conto. Alla fine qualcuno lo ha scovato, ma nel frattempo se ne era parlato parecchio e con toni aspramente negativi. Questa visita di Elvis a Houston è in effetti da sempre associata ad una delle sue peggiori esibizioni, al pari di quelle che ebbero luogo a College Park (27/28 settembre 1974), Hampton Roads (1 agosto 1976) e Baltimore (29 maggio 1977), per fare qualche esempio esplicativo. Su alcuni dei più autorevoli libri dedicati all'attività live del celebre artista, tra questi possiamo ricordare Elvis - The Final Years (Jerry Hopkins), Elvis - The Concert Years 1969 - 1977 (Stein Erik Skar), Careless Love (Peter Guralnik) e Elvis in Concert 1945 - 1977 (Sebastiano Cecere),  è possibile leggere recensioni piuttosto dettagliate di questa controversa data. A diverse di queste viene posto il sigillo per mezzo dell'articolo che Bob Claypool (The Houston Post) scrisse a caldo dopo lo show: amareggiato per quanto aveva visto e udito il giornalista stroncò senza appello la performance di Elvis.
Ascoltando il recente Houston, We Have A Problem della Audionics, si arriva molto presto alla conclusione che quel giorno il cantante non sarebbe dovuto salire sul palco. Non si riesce a capire come Elvis, in condizioni di salute tanto precarie, potesse ancora esibirsi due volte nel giro di poche ore, tenere quindi un concerto la sera del 27 agosto (a San Antonio) e un altro il pomeriggio del giorno seguente, senza beneficiare degli indispensabili tempi di recupero. Mentre il cd gira furiosamente, incurante di quanto sta sottoponendo alla nostra attenzione, siamo silenziosi testimoni di una disfatta, durante la quale Elvis lotta, ricorrendo a mestiere ed esperienza, non tanto per stupire e deliziare i presenti, quanto piuttosto per tenere in piedi lo spettacolo e, non ultimo, per svegliarsi. In questo senso, l'abituale siparietto iniziale con il corista J.D. Sumner, la lunghissima introduzione della band e più in generale l'interazione con il pubblico assumono i contorni di una recita, messa in atto per prendere tempo e racimolare un po' di forze. Senza soffermarsi su ogni singola canzone, Love Me sembra doversi protrarre all'infinito solo perché Elvis non ricorda di doverla chiudere, All Shook Up, Teddy Bear e Don't Be Cruel sono pezzi di storia della musica gettati via e perfino un highlight del calibro di Hurt risulta mediocre. Il Re si scuote soltanto quando esegue America The Beautiful, il numero ad alto tasso patriottico inserito nelle setlist del 1976 per celebrare il bicentenario degli Stati Uniti d'America. Al termine di Can't Help Falling In Love si ha la netta sensazione che Elvis sia arrivato al capolinea, che non avrebbe potuto cantare una sola nota in più.
Durante la prima parte del tour che comprende la tappa a Houston, Elvis ebbe libero accesso al fantasmagorico assortimento di "medicinali" che assumeva regolarmente. Gli effetti di questa catastrofica possibilità si fecero sentire immediatamente e furono alla base di un pomeriggio da incubo. Un avvicendamento di medici in corsa permetterà all'ennesimo giro di concerti di proseguire fino alla fine, senza però risolvere il problema di fondo.
Perché Elvis continuò ad esibirsi, quando parve chiaro a tutti che sarebbe stato meglio fermarsi il tempo necessario per curarsi e riprendersi? Inutile continuare a cercare il colpevole tra manager insensibili, mogli in fuga, amici opportunisti e fidanzate bambine, se non si parte dal presupposto che, prescindendo dagli altri, bisogna sapersi prendere cura di se stessi, avere le idee chiare, desiderare con tutte le forze il cambiamento e gli obiettivi da perseguire. Certo, a quanto ci risulta il Colonnello Parker non mosse un dito per impedire al suo protetto di presentarsi sui palcoscenici americani, ma non avrebbe potuto fare diversamente, perché aveva un disperato bisogno di soldi e i tempi di Hollywood e delle stratosferiche vendite di dischi erano finiti da un pezzo. Per contro, on the road c'erano montagne di dollari da spartirsi, secondo la generosissima regola del fifty-fifty stabilita da poco. Sfortunatamente anche ad Elvis serviva denaro, con la medesima urgenza.
Nonostante alcuni segnali di crisi la ditta Presley - Parker restò sostanzialmente fedele all'assioma "io manager, tu artista" secondo il quale, per mezzo di una rigida compartimentazione, uno dei due si sarebbe occupato della gestione commerciale mentre l'altro, libero da pressioni e grattacapi, avrebbe dovuto pensare esclusivamente ad esprimersi nel canto, con i notevoli mezzi che aveva a disposizione. Paradossalmente, se i confini tra arte e denaro fossero stati ancora più marcati tutto sarebbe filato liscio. In realtà furono proprio gli sconfinamenti nel campo altrui e il mancato adempimento dei doveri sanciti dall'unione a generare problemi. Parker mise troppo spesso Elvis nella condizione di dover sottoutilizzare il proprio straripante talento e di attingere da fonti compositive non all'altezza, condizionando pesantemente il corso della sua carriera. Dal canto suo, salvo poche eccezioni, Elvis non si curò mai del destino delle sue canzoni, non si presentò preparato all'appuntamento con gli studi di registrazione, non promosse i suoi album e, ad un certo punto, smise semplicemente di incidere, in barba ai contratti firmati e alle preoccupazioni della casa discografica. Il pressante bisogno di liquidi derivante dallo sperpero fece il resto, costringendo la leggenda vivente e il maneggione, accomunati dallo stesso destino, a macinare insieme migliaia di chilometri. Apparentemente per sempre.
Quando il cd si ferma, ci rendiamo conto che Houston non è altro che uno dei momenti in cui il peso di tante scelte sbagliate e delle decisioni non prese si fece sentire, presentando il conto. Dopo l'ascolto resta la consapevolezza che la mia stima per Elvis non risulta intaccata di una virgola. Già, noi appassionati siamo fatti così, vorremmo salire sulla macchina del tempo, farci trovare fuori dal Summit per dirgli vieni, adesso ti porto a casa. Dopotutto, di manager privi di sensibilità se ne trovano tanti, di persone in grado di rendere le nostre vite più belle ce ne sono pochissime.

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